Da anni mettiamo in ordine i numeri. Nel 2022, realizzando la terza edizione dei «100 Numeri per capire l’autotrasporto», ci rendemmo conto che quella pletora di padroncini, indicata da sempre come punto debole del settore, si andava ridimensionando in modo drastico. Ma a farla indietreggiare era più l’anagrafe che non il mercato. Perché è vero che le piccole aziende sono tante, ma è anche vero che la stragrande maggioranza di esse è nata non perché qualche appassionato del volante abbia deciso di rincorrere un sogno imprenditoriale, ma perché lo Stato, dal dopoguerra in poi, quando aveva bisogno di servizi di trasporto per assecondare la crescita economica, concedeva con agio le licenze persino ai cassaintegrati di settori in difficoltà. La precarietà, quindi, era dietro l’angolo: dopo essere stati dipendenti per una vita, queste migliaia di monoveicolari si ritrovavano imprenditori allo sbaraglio. Talmente allo sbaraglio che al primo aumento del costo del gasolio, lo stesso Stato si sentiva obbligato ad approvare una normativa per concedere sussidi di varia natura. Forme di sostegno spesso ancora esistenti.
Normale che oggi, di fronte a tale scenario, in molti auspichino la creazione di campioni nazionali della logistica. Eppure, emerge dall’edizione 2024 dei «100 Numeri» – che sarà presentata al Transpotec a Milano il prossimo 10 maggio – qualche “campioncino” sta alzando la testa. Perché mentre ci si concentrava sulla metà della luna popolata dal pulviscolo imprenditoriale, sull’altra una ridotta fetta di aziende comunque cresceva. E tanto. Il loro peso percentuale sul totale delle aziende è irrisorio, inferiore all’1%, ma la loro quota di parco veicolare supera il 30%. In più, se si guardano i loro bilanci, si scopre come in pochi anni hanno fatto balzi in avanti il valore aggiunto e il ritorno sugli investimenti. Insomma, questi campioncini generano margini impensabili fino a qualche anno fa.
E in tal senso li ha aiutati molto sia la logistica, sia l’opportunità di generare un fatturato dal trasporto che va decisamente oltre le potenzialità del loro parco veicolare. Quindi, se ne desume che queste grandi aziende crescenti dispongono di un ampio 30% del circolante, ma muovono un’offerta di trasporto sicuramente più ampia, utilizzando i servizi di tanti padroncini.
Tutto questo non vuol essere una critica: se non c’è sfruttamento, se la grande e la piccola azienda collaborano con soddisfazione reciproca, buon per loro. E il mercato fornisce segnali sull’esistenza di una tale soddisfazione: da una parte, infatti, le grandi aziende cercano di tenersi sempre più strette le piccole non limitandosi a fornire il semplice viaggio di vezione, ma concedendo, per esempio, il noleggio dei veicoli o altre convenzioni con cui mitigare i costi variabili; dall’altra, le iscrizioni all’Albo segnalano piccoli incrementi del numero dei monoveicolari, dimostrando che evidentemente le relazioni strette con la grande azienda forniscono strumenti di sopravvivenza.
Ma se la parte preponderante del mercato ha assunto tale assetto e quella residuale cerca di difendersi soprattutto in termini aggregativi, espressi dalla crescita roboante (+1.450%) dei contratti di rete, sarebbe opportuno ripensare le politiche del settore. In che modo lo diranno politica e rappresentanza, intanto qualche interrogativo emerge dai «100 Numeri»: ha senso che le relazioni tra grandi e piccole imprese siano ancora inspirate dalla logica della subvezione? Se il padroncino lavora esclusivamente per un’altra azienda di trasporto, fino a che punto lo si può connotare in termini imprenditoriali? E se il rapporto tra le due realtà è segnato dal controllo dell’una sull’altra, quali conseguenze produce questo stato di fatto in termini di diritto societario? Ma soprattutto, è giusto gravare il padroncino di quelle responsabilità vettoriali, sempre più oggettive, di cui lo chiama a rispondere la giurisprudenza? E l’Albo degli autotrasportatori riesce a raggiungere il suo scopo disponendo di un’unica anima? Non sarà il caso di creare al suo interno contenitori diversi per tutelare meglio condizioni differenti? In questo modo non avrebbe giovamento sia la rappresentanza, più libera di scegliere il singolo cappello imprenditoriale da indossare, sia lo Stato, più efficace nell’individuare politiche settoriali mirate?
D’altra parte, lo dice la logica, ma anche la Costituzione: trattare in modo uguale situazioni evidentemente diverse, equivale a commettere una inopportuna forma di discriminazione.
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