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EDITORIALE | Avremmo bisogno di più Europa

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Il numero degli infortuni sul lavoro subiti ogni anno dall’Italia è più che triplo rispetto a quello degli incidenti stradali. A spanne, i primi battono i secondi 600 mila a 165 mila. Se però si verifica il numero di persone che perde la vita a causa di questi eventi sinistri, si scopre che la strada ne produce tre volte di più: circa tremila rispetto ai quasi mille che muoiono lavorando. Tutto ciò serve a ribadire un’evidenza: il contesto stradale è di per sé ad alto rischio. E lo è in particolare per chi su questa striscia d’asfalto trascorre le proprie giornate lavorative. Prova ne sia che se un infortunio su cinque avviene «fuori dall’azienda», quando il lavoratore sta conducendo un mezzo di trasporto, circa il 50% delle vittime sul lavoro accertate dall’Inail perde la vita su un veicolo. E il 50% di questo 50% lavora all’interno del settore del trasporto di merci su strada. Facile comprendere, quindi, perché l’incidente stradale sia la prima causa di morte sul lavoro.

La prima riflessione possibile è quella che impone di fornire una corretta definizione alle cose: ogni tipo di lavoro che avviene per strada, a prescindere dal veicolo con cui lo si affronta, è grandemente pericoloso. Espone cioè a un rischio più elevato rispetto ad altre professioni. E quindi andrebbe gratificato anche dal punto di vista dell’indennità di rischio. Credo cioè che un autista di camion debba essere pagato di più non perché svolge un lavoro faticoso, ma perché lavora in un ambiente ad alto rischio. Anche perché la fatica è soggettiva, il rischio è statisticamente oggettivo: ogni giorno, da diversi anni, muoiono in media sulla strada 9 persone e 612 rimangono ferite.

La seconda riflessione è interrogativa: quanto costa tutto questo? Anche qui la risposta nasconde risvolti oggettivi, giacché in Italia – così come richiesto dalla direttiva europea 2008/96 – ogni anno il governo, tramite il ministero dei Trasporti, effettua tale calcolo. E appura che il costo sociale di ogni singola persona sparita sulla strada sfiora gli 1,8 milioni di euro.

A fornire un’idea più puntuale del fenomeno è la comparazione. Quella da stabilire tra i 18-20 miliardi che il nostro Paese spende per conseguenze generate da incidenti stradali e i circa 24 che vale la legge di bilancio per il 2024. Una differenza c’è, ma non così rilevante.

Tutto questo porta a una terza riflessione: se la strada è fortemente costosa, tanto da gravare così tanto sui nostri conti pubblici, perché non diventa un ricettacolo di investimenti utili a scongiurarli? Qui la risposta è complicata. Per un verso, il nostro atteggiamento in materia è fatalista: conosciamo l’incidentalità, ma tendiamo a considerarla una sorta di male necessario. Prova ne sia che non insegniamo (o lo facciamo poco e male) educazione stradale nelle scuole, non lavoriamo di prevenzione, focalizziamo il dibattito in materia su questioni legate all’emotività e ai clamori mediatici. Del tipo: «Ci sono cinque ciclisti che hanno perso la vita a Milano in pochi mesi? Urge imporre sensori anti-angolo cieco a tutti i camion».

Tralascio il merito di questa vicenda (affrontata a p. 41) per sottolineare invece che interventi pianificati e azioni mirate ad accrescere la cultura dei conducenti e la loro consapevolezza sui comportamenti a rischio, ottengono quasi sempre un riscontro, anche economicamente quantificabile. Lo racconta l’Inail, lo riferisce anche una concessionaria autostradale come Autobrennero (a p. 59) e lo testimonia pure (a p. 27) il Gruppo Federtrasporti che anni fa nell’arco di qualche stagione riuscì a tagliare 1.500 incidenti stradali in cui erano coinvolti veicoli degli associati e diversi costi aziendali (dai premi assicurativi a quelli Inail, fino al peso finanziario dei fermi macchina). E a posteriori calcolò che ogni euro investito ne aveva generati 1,56. Ma studi europei stimano che si possa arrivare anche a un ritorno di 2,2 euro.

La conclusione, allora, è netta: avremmo bisogno di più progettualità e di meno emotività. Avremmo bisogno di più normative mirate, come quella – tutta europea – che da luglio impone l’equipaggiamento obbligatorio degli ADAS ai veicoli di nuova immatricolazione, perché sappiamo che il 90% di chi è rimasto coinvolto in incidente, ma era tutelato da questi sistemi, ne è uscito indenne. Avremmo bisogno di più campagne di lungo periodo, corroborate da investimenti, come quella – tutta europea – che punta a dimezzare le vittime da incidenti stradali nel continente entro il 2030 e ad azzerarle entro il 2050. Insomma, avremmo bisogno di più Europa. Anche dopo le elezioni.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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