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10 domande a… Sergio Favesi

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CARTA DI IDENTITÀ

Nome e CognomeSergio
CognomeFavesi
Età55 anni
Stato civileSposato
Punto di partenzaBari
Anzianità di Servizio25 anni
Settore di attivitàTrasporti liquidi alimentari
  • Come è scoccata la «scintilla» per il camion?

Lavorando per un’azienda agricola quando ero più giovane. All’epoca guidavo una motrice, ma ben presto ho sentito la spinta a fare qualcosa di più. La campagna, infatti, mi stava stretta, volevo andare in giro, vivere davvero in simbiosi col camion. E così, dopo tre anni, sono passato al bilico e da quel momento non l’ho più lasciato.

  • Adesso di cosa ti occupi?

Dopo alcuni anni di esperienza presso la storica Barsanti, sono passato alla Piangivino Trasporti, in provincia di Bari, dove lavoro tuttora. Mi occupo del trasporto di liquidi alimentari (solitamente vino, latte, ecc.) e serviamo tutta l’Italia: da Roma a Firenze, da Grosseto a Brescia, incluso il versante adriatico.

  • Autista o padroncino?

Autista tutta la vita. Oggi non conviene proprio fare il padroncino.

  • Secondo te, perché?

Perché i rischi d’impresa sono troppo elevati. Tutto costa di più: dal gasolio all’autostrada, dall’acquisto dei veicoli alle spese per mantenerli. Ma in generale, col tempo, è diventato un lavoro sempre più complicato da gestire in proprio. Basti pensare alle attese al carico e allo scarico, che allungano i tempi di consegna facendo saltare ogni tipo di programmazione.

  • Quali sono le maggiori criticità nel tuo lavoro?

Ho citato le attese al carico, ma ci sono tante altre disfunzioni che rappresentano una costante spina nel fianco per chi ogni giorno fa questo mestiere. Su tutte, la mancanza di parcheggi nelle aree di soste. Non ce ne sono mai abbastanza rispetto alla «domanda », gli spazi sono ridottissimi e i servizi offerti sono pochi.

  • Hai mai perso la passione per questo lavoro?

Sì, confesso di averla un po’ smarrita. Nel senso che non ho più l’entusiasmo di quando ho iniziato. Ma sono stanco non del lavoro in sé, piuttosto di come oggi siamo costretti a svolgerlo: sempre sotto pressione, senza tutele e costantemente ignorati. Lavorare in questo modo è davvero pesante.

  • Cosa, invece, te la fa riaccendere?

La serietà delle persone con cui mi trovo a confrontarmi ogni giorno. Ho la fortuna di lavorare per un’azienda di trasporto dove il rispetto per le persone è al primo posto. Se c’è qualsiasi problema mi vengono incontro, si dialoga, si cerca in tutti i modi di creare soddisfazione e valorizzazione. E questo l’apprezzo molto.

  • Hai mai pensato di cambiare lavoro per fare altro?

Questo mai. Sarà per l’abitudine o per la formazione ricevuta, ma non riuscirei a fare altro. Dopo una vita passata sempre in movimento, uscirei matto alla sola idea di stare chiuso otto ore dentro un ufficio.

  • Cosa diresti a un giovane che vuole fare questo mestiere?

Che la passione non basta. Perché stare sul camion vuol dire sacrificare tante cose, a partire dal tempo da dedicare ai propri cari, al divertimento, agli amici. È un lavoro che non accetta compromessi.

  • Anche perché immagino che trovare l’equilibrio tra lavoro e tempo libero non sia sempre facile…

Per niente. Viaggiando molto e stando quasi tutta la settimana fuori, praticamente riesco a ritagliare poco tempo utile per me stesso. Diciamo che quando sono a casa cerco di dedicare il più tempo possibile alla famiglia. E magari si organizza qualcosa con gli amici il sabato sera.

Per leggere altre interviste ai protagonisti della strada, vai a «Voci on the road».

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