Il punto di vista nelle storie raccontate da Edoardo De Angelis è sempre stato femminile (il perché ce lo ha spiegato qui). Nel Comandante, invece, il film con cui si è aperta l’80a mostra del cinema di Venezia e che arriverà nelle sale dal 1° novembre 2023, le donne restano a terra. Faticano a giustificare la partenza verso il mare dei loro uomini, a maggior ragione se sono impegnate nel percorso che serve a dare la vita. Chi parte, invece, non ha questo potere procreativo, ma dispone di una responsabilità ugualmente importante: non può dare la vita, ma può salvare più vite. A condizione di rispettare quella elementare legge del mare che impone di tendere un braccio a chi è finito in acqua. Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino), il capitano di corvetta al comando del sommergibile Cappellini della Regia Marina, la sera del 16 ottobre 1940, in piena seconda guerra mondiale, fa esattamente questo: dopo aver affondato un piroscafo belga, non esita un attimo a ospitare a bordo i 26 uomini dell’equipaggio rimasti aggrappati a una scialuppa.
Terra e mare, restare o partire
Terra e mare, quindi, sono due universi distanti. Ma sono anche due mondi in rapporto dialettico: Rina (Silvia D’Amico), la moglie di Todaro, tenta in tutti i modi nei minuti iniziali del film di convincere il marito a mettere a riposo quella schiena fratturata da un incidente e, di conseguenza, a trascorrere insieme un’esistenza di sentimenti, in una casa a terra da cui il mare si guarda lontano. È un prologo spiazzante, in cui una donna trasmette al suo uomo ogni possibile fascinazione per convincerlo ad abbracciare una scelta di vita e proprio per questo costruito con un’estetica rigorosa e con una fotografia lontana anni luce da quella del resto del film. Anzi, è tutto così bello che quasi si stenta a comprendere se sia un vissuto o soltanto un desiderio. Di certo, quelle immagini di una donna a seno nudo con un cappello da ufficiale in testa non possono non far pensare a Il portiere di notte di Liliana Cavani. Di certo, non convincono Todaro, già deciso a reimmergersi nel mare per l’ultima volta, come fanno intuire a posteriori le immagini iniziali del Comandante, mostrandolo mentre si inabissa nel mare a piedi in giù, come avviene quando si getta in acqua un corpo morto. Il perché di questa scelta lo spiega – mi si conceda la divagazione – Joseph Conrad, nelle prime pagine di Cuore di Tenebra: «Gran parte degli uomini di mare conducono, se così si può dire, una vita sedentaria. Il loro spirito è di inclinazioni casalinghe, la loro casa, la nave, è sempre con loro e così la loro patria, il mare».
Ecco, quel sottomarino largo appena sette metri è per Todaro una casa, da condividere con una ciurma fatta di diversità, di dialetti e di culture varie che trovano all’interno dello scafo un’espressione felicemente collettiva. Anzi, in questa convivenza tra un personaggio straordinariamente centrale e un’umanità dai tratti variegati, il film trova un equilibrio e una cifra originale. Merito di un Favino volutamente contenuto da un’inflessione dialettale (veneta), utile in funzione scaccia-enfasi. Ma merito pure di una sceneggiatura (firmata dallo stesso regista insieme allo scrittore Sandro Veronesi) che lascia spazio ai pensieri dei più amplificandoli tramite il ricorso a tante diverse voci narranti. Per certi versi quell’italianità chiamata in causa da Todaro come giustificazione del suo gesto salvifico trova negli spazi angusti del sommergibile quell’unità, quel tratto identitario che spesso fuori fatica a emergere.
«Gran parte degli uomini di mare conducono, se così si può dire, una vita sedentaria. Il loro spirito è di inclinazioni casalinghe, la loro casa, la nave, è sempre con loro e così la loro patria, il mare».
Sotto e sopra l’acqua
Ma non è tutto perché il sommergibile non è soltanto la pancia di ferro in cui trova nutrimento culturale questo coacervo di diversità, ma è anche un polmone bifronte che, come si conviene a ogni organo respiratorio, ha una fase di inspirazione e una di espirazione. Visivamente è una trovata geniale, un punto di vista che passa costantemente dall’immersione all’emersione, dal buio alla luce, dalla carezza avvolgente e protettiva del mare alla pericolosa seppure necessaria esposizione alla luce. Il momento della prima risalita, in proposito, incanta per la lenta fuoriuscita dall’acqua dello scafo, per il senso di rilassatezza dell’equipaggio posto in deciso contrasto con quel bagliore plumbeo nell’aria, presagio del primo contatto con la guerra, con il fuoco nemico e con l’addio a un membro dell’equipaggio. Un capolavoro – al tempo stesso – di regia, di effetti speciali e soprattutto di fotografia.
Il cinema democratico: ognuno vede ciò che vuole
Una volta di più, quindi, Edoardo De Angelis dimostra una particolare capacità di realizzare immagini dall’alto tasso estetico che, tramite simboli e metafore varie, stimolano chi guarda a una reazione. Che spesso è una reazione personale, avulsa dalle intenzioni di chi sta dietro la macchina da presa. Prova ne sia che a leggere (e ad ascoltare) i giudizi espressi sul film si trova tutto e il contrario di tutto. Un variopinto campionario di opinioni, simile a quello interno al sommergibile Cappellini. L’Italia – ahinoi – è anche questa…
VGROOVE TRA I PRODUTTORI
Nella foto, Maria Giovanna ed Edoardo De Angelis: lei è l’amministratrice delegata di Vgroove, una delle società che ha prodotto, insieme Indigo Film, Rai Cinema, O’Groove, Tramp LTD e Wise, il film diretto da lui. Tanti apporti produttivi giustificati dall’elevato budget del Comandante. Vgroove, in realtà, è una realtà partita un paio di anni fa noleggiando hospitality estremamente curate al mondo del cinema, ma poi nell’arco di qualche stagione ha imboccato anche la strada della produzione. Non a caso è parte di un gruppo – che fa capo a VFM Company e di cui fa parte anche Vrent, la società leader nel noleggio dei veicoli per il settore dell’ecologia – che ha fatto dell’eclettismo una sorta di modello di business.
UN VENETO NAPOLETANO
Massimiliano Rossi nel film interpreta Vittorio Marcon, fidatissimo braccio destro di Salvatore Todaro. Fornisce una prova coinvolgente, a tratti anche commovente. Anche se l’aspetto più straordinario è che lui, napoletanissimo, nel film si esprime, in particolare quando è a tu per tu con Todaro, in un dialetto veneto molto stretto quanto convincente.
IL TRADUTTORE DI OMERO
Johannes Wirix è Jacques Reclercq, il soldato belga che rimuove gli ostacoli linguistici, traducendo i dialoghi tra belgi e italiani, ma anche – dal greco antico – quel foglio su cui è scritta la genealogia di Sisifo riportata nell’Iliade e consegnata a Todaro da una sorta di novello oracolo (interpretato da Paolo Bonacelli) a cui il Comandante ha chiesto consiglio sul salpare o meno in missione con il Cappellini. Ha appena 26 anni, ma c’è da scommettere che lo vedremo sugli schermi ancora molte volte.
Johannes Wirix e Mariagiovanna De Angelis