Partiamo dal principio. Come giustamente ricorda il nostro lettore, il regolamento adottato dall’IMO (International Maritime Organization), volto a ridurre le emissioni di gas dovute all’ossido di zolfo presente nei combustibili per uso marittimo (bunker), è noto da tempo e sarà applicato in tutto il mondo e in tutti i settori in cui sono utilizzati combustibili in mare aperto. Non va dimenticato che, secondo studi condotti in sede europea, il solo inquinamento atmosferico prodotto dalle navi sulla terraferma è stimato in oltre il 40% (ben superiore al 4,6% attribuibile all’autotrasporto).
La nuova normativa prevede che, dal 1° gennaio 2020, tutte le navi per trasporto marittimo debbano ridurre gli ossidi di zolfo dell’85% (dall’attuale limite del 3,5% allo 0,5%). Secondo stime della stessa IMU e del Comitato europeo per la protezione dell’ambiente marino (MEPC), tra il 2020 e il 2025 dall’attuazione del regolamento scaturiranno vantaggi sia in termini di riduzione dell’inquinamento atmosferico, con un abbattimento del 77% della quantità di emissioni di zolfo provenienti dalle navi, sia sulla salute della popolazione, consentendo di evitare oltre 570.000 decessi prematuri.
Peraltro, qualunque soluzione tecnica venga adottata, da scegliere anche in base all’età delle navi (tecnologia scrubber per la pulizia delle emissioni; utilizzo di LNG o di carburanti a bassissimo tenore di zolfo), i riflessi economici connessi all’introduzione della normativa comportano un aumento dei costi operativi delle imprese armatoriali certamente considerevole, anche se non quantificato.
Sta di fatto che, per fronteggiare tale situazione, i vettori marittimi italiani hanno applicato aumenti tariffari nell’ordine del 25-30% agli operatori che trasportano merci sui mezzi pesanti, da aggiungere ai rincari già introdotti lo scorso anno. Hanno così innescato manifestazioni di protesta da parte degli autotrasportatori, con blocchi dei porti di Sicilia e Sardegna e grave danno alle autostrade del mare. Vale la pena di ricordare che quei porti sono utilizzati per lo più da imprese di autotrasporto artigiane e da PMI, aziende cioè che, nell’attuale assetto dei rapporti di forza nel mercato dei trasporti, sono meno in grado di ribaltare sul committente i maggiori costi subiti. In sostanza, al contrario di quanto prevedono le regole di un sano mercato, è l’ultimo anello della catena logistica – come rileva il lettore – a fare le spese di situazioni che non ha certo provocato.
Il tavolo tempestivamente aperto dal Governo per trovare una soluzione a questa vertenza dovrebbe rispondere alla duplice esigenza di evitare gravi danni all’economia delle isole (ma non solo), e di non vanificare gli effetti del marebonus stanziato anche quest’anno sul bilancio dello Stato, ricercando un equilibrio fra le esigenze degli armatori e quelle degli autotrasportatori: l’avvio sembra promettente, ma occorrerebbe evitare il rischio che si risolva nell’ennesimo varo di misure compensative a favore dell’autotrasporto, e a carico della finanza pubblica, mentre l’ideale sarebbe che – come sostenuto dalla Federazione degli Spedizionieri – gli obiettivi di salvaguardia dell’ambiente non fossero rimessi solo all’iniziativa delle istituzioni pubbliche, ma propri di tutti gli operatori economici interessati a una logistica sostenibile. E in questa ottica di coscienza ambientale diffusa, occorrerebbe massima trasparenza anche nella modalità di formazione dei noli marittimi.
Lasciando da parte l’utopia, forse è giunto il momento di dare concretezza all’impegno assunto dal Governo con gli autotrasportatori nell’incontro del 19 novembre scorso, di accelerare l’approfondimento in corso presso gli uffici del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per pervenire alla ripubblicazione periodica dei valori di riferimento dei costi di esercizio delle imprese di autotrasporto, allo scopo di definire tempestivamente una soluzione equilibrata e in sintonia con le indicazioni da tempo fornite dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.