Il ristorante di cui ci occupiamo oggi non ha bisogno di soverchie presentazioni, perché è conosciuto dalla maggior parte degli autotrasportatori che attraversano il Centro Italia, specie dopo la trasmissione a lui dedicata dallo “chef che sussurrava ai camionisti” (avete capito a chi mi riferisco).
Stiamo parlando de “Il Roscio”, una trattoria che si trova ad Attigliano, in provincia di Terni. Fondata nell’agosto del 1971 da Elia Battistelli e Adia Ippoliti, è gestita da oltre 10 anni dalla figlia Simona e il suo staff che continuano la tradizione di famiglia. Il locale è famoso per la buona cucina, essenzialmente di marca umbra, e per le carni cotte alla brace, ma anche per la sua atmosfera cordiale e l’aria da “vecchia trattoria di una volta” che aiuta a rilassarsi mangiando. Capitolo aforismi: in omaggio alla forma dialettale dell’insegna, il protagonista delle nostre frasi famose sarà il rosso.
La trattoria è facile da trovare. Arrivati al casello di Attigliano dell’A1 Roma-Firenze, si esce e il ristorante è subito lì di fronte, a una cinquantina di metri. Il parcheggio è ampio e può ospitare circa 15 camion.
La locanda è al primo piano di una palazzina semplice e austera, che ospita anche un hotel a due stelle. L’interno – pieno di clienti, perlopiù uomini della strada – è rustico e colorato, con sedie in legno e paglia. Nella sala fa bella mostra di sé un grande camino che ospita la griglia, su cui già sfrigolano carni di tutti i tipi. Il menu del giorno, caratterizzato dalle specialità della cucina umbra, consiste in primo, secondo, contorno, acqua e vino.
Dai primi si deduce subito come non siamo in un posto da ‘novelle cuisine’: porzioni generose e piatti colmi fino all’orlo. La pasta servita è fresca e rigorosamente fatta a mano. Ne proviamo due: i classici bucatini all’amatriciana e una specialità locale, le ciriole al pomodoro e basilico (con qualche euro in più le servono anche col tartufo nero di Norcia), che ricordano un po’ le fettuccine o i bigoli veneti. Il termine “ciriole” deriva dal latino “cereus“, ovvero della “stessa tonalità della cera”, dato il colore bianco della pasta, realizzata esclusivamente con acqua e farina di grano tenero e senza uova. Primo semplicissimo, ma delizioso che sa di sapori antichi e terra italica. Ottimi anche i bucatini, leggermente passati di cottura, ma ben conditi con un guanciale saporito e morbido e spolverati di adeguatissimo pecorino.
L’altra specialità della casa è la cottura alla brace, effettuata in sala e pregna di irresistibili profumi. Optiamo per l’agnello e, pensando ai vegetariani e anche per curiosità, per il pecorino al peperoncino alla griglia. L’agnello è succulento, tenero anche se leggermente grasso; è accompagnato da patate arrosto al rosmarino – unte, ma complessivamente buone – e cicoria piccantina, agliata in modo sopportabile. Tutto promosso senza problemi. Il pecorino grigliato è un’interessante esperienza gustativa, non troppo piccante e a suo modo sfizioso (però non lo mangerei tutti i giorni).
Il caffè chiude un pranzo che ha usufruito di un servizio veloce (abbiamo chiuso in meno di 1 ora, senza correre). Il conto ha il prezzo fisso di 17 euro, che è veramente una cifra bassa se la rapportiamo alla buona quantità/qualità del cibo e del servizio.
A fine pranzo vado a rovistare nel web per qualche informazione sul termine “roscio”. Scopro che è espressione dialettale, ma – come dice la Treccani – con attestazioni letterarie antiche. Ad esempio, nella tragicicommedia ‘La pietà trionfante (1660)’ di Guarino Guarini un personaggio dice: «Ti voglio buttà questo ginocchio, / acciò tu vedi la mano, che mi ha /sgraffignato quel gatto roscio». Troppo colto? Ok, lo usa anche il Monnezza di Tomas Milian in diversi film. Troppo populista? Ehh, ma non siete mai contenti….