La sentenza di cui trattiamo oggi ci è stata segnalata da un gruppo di camionisti dipendenti o ex dipendenti dell’Arcese Trasporti, nota azienda trentina di trasporto merci e logistica. L’argomento di cui si occupa la decisione – l’applicazione lecita o meno della Cassa integrazione (Cig) – è particolarmente interessante, perché definisce i confini delle motivazioni e dei requisiti con i quali si può ricorrere legittimamente a questo strumento e dove invece si rischia di abusarne illegalmente.
IL FATTO
La situazione segnalataci riguarda il massiccio ricorso da parte di Arcese dal 2011 al 2015 alla Cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga per gli autisti alle sue dipendenze. Queste sospensioni si erano tradotte in un rilevante danno economico per i camionisti, visto che gran parte della retribuzione derivava dall’indennità di trasferta che in Cig ovviamente non ricevevano. Secondo le loro dichiarazioni, gli autisti in quel periodo vedevano l’azienda guadagnare e incrementare il numero dei viaggi per l’aumento delle commesse e dei clienti. Il lavoro era infatti assegnato ad autisti di aziende polacche, rumene e slovacche di proprietà della stessa Arcese pagati con le retribuzioni di quei Paesi, mentre i guidatori italiani rimanevano a casa a carico delle casse pubbliche. Gli autisti stranieri erano formalmente dipendenti dalle società estere e lavoravano con camion di proprietà di queste aziende, ma acquistati in Italia e allestiti e preparati dai meccanici Arcese con lo stesso sistema informatico installato sui camion dei dipendenti in Cig.
Comunque la forzata sospensione in Cig con riduzione della retribuzione costringe 400 dipendenti, nei cinque anni indicati, ad accettare le risoluzioni del rapporto con incentivo all’esodo (dimissioni incentivate) e con accesso all’indennità pubblica di mobilità.
Ma arriviamo al dunque. Nel 2015 Arcese Trasporti si ritrova con circa un centinaio di autisti e ne licenzia 49, che fanno ricorso al Tribunale di Rovereto per chiedere l’annullamento del licenziamento collettivo. Motivazione: dall’analisi dei bilanci Arcese degli anni 2011-2015 non risultava, secondo i licenziati, che l’azienda fosse in crisi economica e, pertanto, le varie comunicazioni di apertura delle procedure di licenziamento dovevano contenere dati e informazioni false. In sintesi, nel 2018 il licenziamento viene effettivamente annullato in sede giudiziale.
Da qui i dipendenti maturano l’idea che anche la sospensione in Cig fosse illegittima, sia appunto per le dichiarazioni false e fuorvianti poste dall’azienda a fondamento delle richieste di Cig, sia per l’insussistenza dei presupposti della contrazione di fatturato, del calo di commesse di lavoro e della relativa crisi aziendale, sia infine per l’avvenuta sostituzione degli autisti sospesi con guidatori di società terze. Quindi chiedono sulla base di questi presupposti anche l’annullamento della Cassa integrazione 2011-2015, presentando ricorso al Tribunale di Rovereto nel giugno 2021.
LA DECISIONE
Ma il Tribunale di Rovereto respinge il ricorso, ritenendo di non poter giudicare l’operato della Pubblica Amministrazione. Secondo il Tribunale, infatti, nel concedere i provvedimenti di integrazione salariale la PA opera con discrezionalità e non sarebbe quindi soggetta al controllo dell’autorità giudiziaria.
I camionisti fanno comunque ricorso alla Corte d’Appello di Trento che, con sentenze pubblicate l’11 aprile 2024, accoglie invece i tre appelli presentati (dai diversi lavoratori). I giudici rilevano infatti che l’autorità giudiziaria ha sempre il potere di controllare che l’operato della PA, pur se discrezionale, non sia stato deviato da vizi di legittimità. Nel nostro caso – dice la Corte – la falsa rappresentazione della crisi operata dall’azienda aveva «minato» il giudizio della PA, «non sussistendo i fatti posti alla base dell’accertamento della Pubblica Amministrazione medesima».
Arcese, insomma, aveva fornito durante le varie procedure amministrative informazioni e dati falsi e fuorvianti, dichiarando una crisi aziendale del tutto inesistente, mentre, invece, in quegli anni, l’azienda aveva avuto un incremento di fatturato, di utile e soprattutto di commesse. Questo si desume dall’analisi dei dati dei bilanci aziendali, esposti nel dettaglio nei ricorsi.
La Corte ne ricava che l’azienda ha scaricato illegittimamente il costo dei suoi dipendenti a carico dell’intervento nazionale pubblico e «ha quindi fruito del soccorso della Cig non per far fronte ai dissesti provocati dalla sussistenza di una causa la cui esistenza è smentita anche dall’andamento del fatturato (accertato dal consulente tecnico chiamato dal giudice), ma per perseguire una diversa finalità». L’obiettivo reale era quello di «realizzare una ristrutturazione economicamente più conveniente, piegando così lo strumento pubblico di sostegno delle imprese e dell’occupazione a uno scopo diverso e contra legem».
LE CONSEGUENZE
Cosa conclude dunque la Corte? Che «vi siano elementi gravi precisi e concordanti per affermare che tutte le procedure attivate dal 2011 al 2015 si siano svolte sulla base di risultati degli esercizi di bilancio, di condizioni di mercato, di fatturato e con strategie aziendali del tutto difformi dalla effettiva realtà del volume d’affari acquisito e dei risultati di gestione di Arcese».
Secondo il giudice di secondo grado, insomma, le informazioni dell’azienda del 2014 nella lettera di apertura dell’ultima procedura di mobilità (conclusasi nel 2015 con i licenziamenti) erano false ed erano le stesse info fornite nelle lettere di apertura delle procedure precedenti di Cig, perorando così un’insussistente crisi aziendale.
Di conseguenza «tutte le ammissioni alla CIG nel periodo in esame sono avvenute in assenza dei requisiti di legge, in quanto non sussisteva la causa integrabile. Quindi gli accordi sindacali sono invalidi perché adottati in assenza dei presupposti di legge (nullità per violazione di legge) e. analogamente, i provvedimenti amministrativi di ammissione alla Cig sono viziati per eccesso di potere».
L’interesse pubblico che avrebbe dovuto essere perseguito è stato distorto e attuato in modo illegittimo per travisamento dei fatti e quindi gli accordi possono essere disapplicati incidentalmente dall’autorità giudiziaria.
La Corte d’appello ha in conclusione accertato l’illegittimità della sospensione in Cassa Integrazione Guadagni negli anni dal 2011 al 2015 da parte di Arcese ed ha condannato la società trentina a corrispondere le somme dovute ai lavoratori ricorrenti posti in Cig, somme che vanno da 20 a 35 mila euro.
Postilla finale: gli autisti, oltre a sottolineare l’abuso dell’istituto della Cassa integrazione, stigmatizzano anche il danno alle casse pubbliche che stimano sui 15 milioni di euro tra denaro elargito per la Cassa e indennità di mobilità, «visto l’elevato numero dei lavoratori coinvolti negli interventi pubblici di sostegno. Il caso è rilevante, perché l’azienda ha aggirato tutti i controlli senza esser dovuta ricorrere a particolari sotterfugi, ma semplicemente dichiarando il falso nelle sue comunicazioni, pur a fronte di dati di bilancio pubblici in aperto contrasto con le dichiarazioni rese».