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Lo spostamento con mezzi propri tra luoghi di lavoro dell’azienda va rimborsato

La Cassazione ha confermato una sentenza della Corte di Appello di Trento che aveva riconosciuto a un autista il rimborso delle spese per gli spostamenti «su direttiva aziendale, nell’interesse aziendale» dal piazzale di Rovereto a quello di Sommacampagna della sua azienda, utilizzando un veicolo di sua proprietà

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La questione di cui ci occupiamo oggi riguarda il rimborso per spese di spostamento sostenute per lavoro, ma con mezzo proprio. È un tema che ovviamente emerge quando si tratta di costi e tempi spesi per ragioni funzionalmente connesse all’attività lavorativa da svolgere. Una matassa spesso intricata che cerchiamo di dipanare rifacendoci a una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (9 maggio 2023, n. 12277).

IL FATTO

La vicenda nasce da una decisione della Corte di Appello di Trento che, riformando la pronuncia di primo grado, aveva riconosciuto il diritto di un autista di autotreni e autoarticolati a essere rimborsato dalla propria azienda «delle spese sostenute per ogni spostamento tra Rovereto e Sommacampagna – distanti oltre 60 km – con uso di mezzo proprio». La Corte aveva condannato la società al pagamento di una somma di oltre 10 mila euro, oltre agli accessori e alle spese del doppio grado. Infatti, la sede di lavoro stabilita tra le parti si trovava a Rovereto ma, dalla primavera del 2014, la società aveva realizzato un nuovo piazzale di sosta degli autoarticolati a Sommacampagna. Su questo piazzale, in accordo con le RSU, erano state spostate «le macchine necessarie per produrre il lavoro che oggi viene dirottato sui terminal ferroviari di Verona». L’accordo sindacale prevedeva che venissero corrisposti ai lavoratori che parcheggiavano a Rovereto 11,50 euro per le giornate del lunedì e del venerdì per ogni settimana lavorata a Sommacampagna. Il conducente aveva sì ricevuto questi compensi per ogni volta in cui era stato inviato in quella località, ma chiedeva che gli venissero rimborsate anche le spese per ogni viaggio, avendo utilizzato la strada statale con la propria auto per giungere al piazzale di Sommacampagna.

La Corte di Trento aveva considerato, in questo caso, orario di lavoro il tempo per lo spostamento al piazzale, anche perché la somma prevista nell’accordo sindacale era stata trattata in busta paga come lavoro straordinario sul piano fiscale e previdenziale. Poi aveva ritenuto applicabile l’art. 28 del CCNL logistica, trasporto merci e spedizioni, che prevede uno specifico rimborso per l’uso del mezzo proprio nell’interesse aziendale, da determinare come indennità mensile o come rimborso chilometrico da concordarsi tra le parti. Secondo la Corte, infatti, «lo spostamento a Sommacampagna, invece che nella sede contrattuale di lavoro di Rovereto, è uno spostamento del tutto significativo in termini di tempo e di costo… ed eseguito su direttiva aziendale, nell’interesse aziendale». La Corte territoriale riteneva inoltre che l’emolumento stabilito di 11,50 euro era riferibile alla retribuzione per lavoro straordinario, ma non al rimborso delle spese: «Agli autisti è stato chiesto un aumento dell’orario di lavoro per recarsi a Sommacampagna – spiegavano i giudici di appello – e quindi si tratta di un compenso per la prestazione di lavoro e non di un rimborso dei costi sostenuti».

In conclusione, la Corte trentina riteneva legittimo il diritto al rimborso spese ex art. 28 CCNL e provvedeva alla liquidazione dello stesso, secondo le tabelle chilometriche dell’ACI.
Contro questa sentenza l’azienda ricorreva in terzo grado con una serie di motivazioni. Innanzitutto, si obiettava sul fatto che la Corte d’appello avesse ritenuto che il tempo per lo spostamento al piazzale di Sommacampagna fosse orario di lavoro. Poi si contestava il ragionamento per cui l’accordo siglato a livello aziendale con i sindacati non avrebbe potuto regolamentare la fattispecie in esame, negando così l’autonomia contrattuale a livello aziendale e dando per scontata la prevalenza dell’accordo nazionale su quello di secondo livello. Infine, si ipotizzava che l’accordo del 2014 rientrasse nella categoria dei cd. “Accordi di forfettizzazione” previsti dall’art. 11, comma 8, lett. b, del CCNL.

LA DECISIONE

Questi argomenti non sono però apparsi decisivi alla Cassazione, che si è pronunciata a favore dell’autista. Vediamo perché.
La Corte Suprema ha ritenuto che la sentenza impugnata ruoti intorno all’applicabilità dell’art. 28 del CCNL che attribuisce una «indennità di uso di mezzo di trasporto», secondo l’accordo delle parti in forma di indennità mensile ovvero di rimborso chilometrico, al lavoratore che ne usa uno. Secondo il giudice di appello – interpreta la Cassazione – l’accordo sindacale aziendale non disciplina il rimborso spese, ma retribuisce in forma forfettaria e come straordinario il tempo impiegato dal lavoratore per raggiungere il più lontano posto di lavoro. L’azienda eccepisce a questo riguardo che l’indennità presupporrebbe lo svolgimento della prestazione con l’ausilio del mezzo proprio e in costanza di orario di lavoro. Ma la sentenza impugnata ha verosimilmente ricondotto alla norma collettiva l’ipotesi concreta del dipendente che, per ragioni funzionalmente connesse al lavoro da svolgere come autista, veniva comandato a presentarsi, «su direttiva aziendale, nell’interesse aziendale» non presso l’originaria sede di lavoro pattuita, ma in altro luogo, usando per il tragitto un mezzo del quale era evidentemente costretto a sostenere le spese. E questo a prescindere dalla qualificazione del tempo impiegato per lo spostamento.

Per quanto poi riguarda l’assunto della Corte territoriale secondo cui l’accordo aziendale del maggio del 2014 stabiliva un emolumento che non andava a compensare o ad assorbire quanto riconosciuto dalla diversa fonte contrattuale a titolo di «indennità di uso di mezzo di trasporto», si tratta dell’interpretazione del testo negoziale scelta dalla Corte tra quella del dipendente e quella dell’azienda e, nel terzo grado di giudizio, non è consentito lamentarsi della scelta dal punto di vista della legittimità perché questa è stata privilegiata rispetto all’altra nella decisione di merito.

LE CONSEGUENZE

In conclusione, secondo la Cassazione, il ragionamento della Corte trentina appare assolutamente plausibile e ricostruisce correttamente la volontà negoziale dell’accordo aziendale e dei ruoli degli attori coinvolti. Di conseguenza ha respinto il ricorso nel suo complesso, condannando l’impresa al pagamento delle spese liquidate in 3.500 euro, oltre ad altri 200 euro per esborsi accessori e rimborso spese generali al 15%, dando infine atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo dovuto.

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