Pur riguardando un automobilista, la vicenda che andiamo a esaminare oggi può essere interessante anche per i trasportatori stranieri che percorrono lo Stivale. Parliamo dello stato di ubriachezza alla guida, una fattispecie particolarmente attuale visto il forte inasprimento delle pene introdotto dal nuovo Codice della Strada.
Cercheremo di capire se una recente decisione del Tribunale di Forlì possa essere l’inizio di una tendenza giurisprudenziale oppure rimanere una «rara avis» e, soprattutto, se si possa estendere il ragionamento giudiziale anche a driver professionisti provenienti da fuori Italia.
IL FATTO
La vicenda, accaduta in Romagna, risale a circa tre anni fa. Un 25enne macedone, arrivato a Cesena da poche ore senza conoscere una parola di italiano, aveva guidato con la sua auto per recarsi in visita ai genitori che da tempo vivono e lavorano lì. Fermato sulla strada da una pattuglia delle forze dell’ordine in servizio di controllo per la sicurezza della circolazione, il ragazzo veniva sottoposto alla prova dell’etilometro e gli veniva riscontrato un tasso alcolemico di 1,30 g/l.
Di conseguenza era stato multato pesantemente (la sanzione in questi casi può arrivare fino a 6.000 euro) e gli era stata ritirata la patente. In più veniva denunciato per ebbrezza al volante, con il rischio di subire l’arresto da 6 mesi a 1 anno. In particolare, arrivata la questione in aula per ricorso del ragazzo, il pubblico ministero, Francesco Buzzi, aveva chiesto al riguardo 4 mesi di arresto.
LA DECISIONE
La giudice Sonia Serafini del Tribunale forlivese ha esaminato il caso e – in maniera abbastanza sorprendente – ha dato ragione al ricorrente, difeso dall’avv. Alessandro Sintucci. Afferma infatti la giudice che l’avviso di quanto era successo sulla strada e dell’esito dei controlli era sì stato come da prassi consegnato direttamente nelle mani del giovane macedone, ma che di quei fogli l’imputato non era in grado di comprendere assolutamente il significato. Nell’avviso infatti era indicato che, prima di sottoporsi all’alcoltest, il guidatore poteva avvisare il suo legale. Ma il giovane non aveva capito nulla, non leggendo la nostra lingua, per cui aveva comunque soffiato nel palloncino.
Chiamati in aula, due testimoni, un amico del giovane ed un amico della madre, avevano ribadito agli agenti come il 25enne non parlasse e non comprendesse l’italiano, aspetto che era stato trascurato dalle forze di polizia al momento della denuncia. Da qui la decisione di non condannare l’imputato dal punto di vista penale.
LE CONSEGUENZE
La giudice ha dunque assolto il giovane slavo, impedendone di fatto l’incriminazione. Da ciò se ne deduce che dare un avviso di reato in mano ad una persona che non può comprenderlo – e presumiamo anche non farglielo capire in altro modo, tipo con l’aiuto di un traduttore – equivale a non averlo dato.
Indubbiamente si tratta di un’interpretazione capace di suscitare polemiche. Ad esempio il vicepresidente del Senato e senatore della Lega, Gian Marco Centinaio, ha postato sui social un commento molto duro: «E’ assurdo – ha scritto – che di fronte a un reato così evidente si possa ricorrere a un cavillo per farla franca. Noi possiamo fare leggi più severe e inasprire le pene, ma fin quando saranno applicate in questo modo, le strade resteranno pericolose».
Ma come commentare dal punto di vista normativo la sentenza? Legislativamente parlando il giudizio appare in contrasto con alcune sentenze della Cassazione che spiegano come l’atto di verifica della guida in stato d’ebbrezza rientri tra quelli urgenti ed irripetibili. Per questo motivo le forze di polizia devono comunque procedere immediatamente alla notifica anche se chi la riceve non comprende il linguaggio (e la scrittura) di quanto gli stia accadendo.
Il Tribunale di Forlì ha ritenuto al contrario che debba prevalere in ogni caso il diritto di difesa delle persone. In altre parole, l’atto di contestazione dello stato di ubriachezza alla guida è nullo, non solo perché non poteva essere capito dal diretto interessato, ma anche perché questi non aveva avuto neppure il tempo di potersi far assistere da un legale difensore. Del resto come avrebbe potuto chiamare un avvocato se ignorava di averne bisogno? Come si può vedere la questione è delicata e sfaccettata e crediamo che, come in molti altri casi, andrebbe affidata per un giudizio chiarificatore alla Suprema Corte.
Quanto alla domanda se un caso simile potrebbe presentarsi anche per un autotrasportatore, riteniamo che sia più difficile che un conducente di veicoli pesanti venga nel nostro Paese completamente digiuno della nostra lingua, non fosse proprio per evitare fraintendimenti se fermati, anche se forse al primo viaggio avrebbe non poche difficoltà.
Tuttavia, d’altra parte, se un autotrasportatore italiano andasse in Macedonia o in Polonia o in Ungheria non parlerebbe al 90% l’idioma locale né comprenderebbe documenti scritti in quella lingua e avrebbe perciò difficoltà a interfacciarsi con le forze di polizia di quella regione. Per cui l’interrogativo resta.
Viene infine da chiedersi come mai in questa vicenda non si sia ricorso a una lingua comune, come l’inglese, e come la polizia non fosse in possesso di un avviso scritto in quel linguaggio. Evidentemente c’era una carenza di preparazione linguistica e documentale da una o entrambe le parti. Ci sembrerebbe perciò opportuno che agenti addetti al controllo della circolazione ricevessero qualche rudimento di inglese o possedessero documentazione bilingue per poter spiegare in modo corretto a cosa si va incontro in caso di questa o altre infrazioni al Codice della Strada.