Padova, giugno: nulla di nuovo all’orizzonte.
Sto percorrendo la solita tratta autostradale verso Treviso con tappa a Castelfranco. Per me significa uscire a Padova est. E qui, nonostante la presenza di Ikea, il clima di questo giugno è più siciliano che svedese.
Come accade spesso ai caselli, c’è una vettura che sbaglia corsia e, malgrado in entrata avesse preso il ticket, in uscita imbocca le corsie del Telepass, bloccando il traffico.
Nulla di nuovo, se non la solita impercettibile orticaria che monta in noi autisti: ci possiamo abituare a tutto, ma non capiremo mai come si riesca sistematicamente a incasinarci ai caselli, malgrado siano muniti di disegnini semplici come le istruzioni dei mobili Ikea.
Dopo una decina di minuti attesa, diventa evidente che l’automobilista bloccato al casello ha qualche difficoltà : allungo il collo per superare con lo sguardo le macchine davanti e scorgo una targa straniera.
«Non ce la faremo mai», penso.
È cosa nota che gli altoparlanti gracchianti dei caselli sono in grado di distorcere talmente tanto le parole che anche un messaggio elementare – del tipo «è tutto ok, vada» – diventi un codice crittografato. Figuriamoci poi cosa riesca a capire uno sloveno, per di più messo in ansia dalla fila alle sue spalle.
Dall’auto vedo scendere qualcuno: è una donna con un neonato in braccio.
La vedo persa mentre, in mezzo al rumore delle auto, continua a saltellare per cullare il bimbo, senza immaginare che lui è di certo più tranquillo di lei.
Aspetto qualche secondo e intanto penso: «La persona nella macchina dietro la aiuterà ». Invece, nessuno si muove.
Così scendo io dal veicolo e, con inglese biascicato, dico alla ragazza di risalire in auto, di non rimanere con un bimbo esposta al caldo e allo smog. Aspetto nuovamente la risposta del casellante che mi dice di aver già invitato la famiglia a procedere tranquillamente. Gli faccio notare che sono stranieri e che, probabilmente, complice anche il traffico, non avevano capito. Così, tutto si risolve con un «grazie» e con un sorriso. Qualche attimo dopo la fila riparte.
Mentre torno indietro il conducente della macchina dietro di me mi ringrazia. E mentre salgo su camion, sento i suoi occhi addosso e mi piace pensare che quella gratitudine si intrecci con la mia professione.
Quanto poco è bastato per sollevare quella famiglia da un disagio? Quanto poco è bastato per sentirmi una brava persona e godere di un’euforia incredibile per tutto il giorno? E se fosse questa l’immagine con cui ridisegnare noi autisti? Non sarebbe tutto più bello e semplice?
Dare poco per ottenere tanto
Quanto poco è bastato per sollevare quella famiglia da un disagio?
Quanto poco è bastato per sentirmi una brava persona e godere di un’euforia incredibile per tutto il giorno? E se fosse questa l’immagine con cui ridisegnare noi autisti?
Non sarebbe tutto più bello e semplice?
Siamo visti come brutti, arroganti, ingombranti e sporchi. E se, invece, ci mostrassimo come guardiani delle strade? Del resto, il nostro lavoro ci porta a conoscere meglio di altri le dinamiche stradali, il funzionamento di un casello, le difficoltà che si possono trovare. Il nostro lavoro ci espone alla maleducazione altrui e spesso diventiamo bersaglio di frustrazioni con cui non abbiamo nulla in comune. Sappiamo quanto faccia male e, allora, perché replicare?
Quella piccola accortezza ha contribuito a instillare un pensiero diverso in chi guardava, a convincere qualcuno che non tutti gli autisti sono brutti e cattivi.
E allora credo che se ci facessimo carico di questo ruolo di giganti gentili, pronti ad aiutare gli altri e a mostrare gentilezza, potremmo ottenere maggior rispetto. Sia per strada che negli angoli del nostro lavoro.
La gentilezza incrementa il buon umore
La gentilezza è una rivoluzione silenziosa, che inizia in solitudine e poi diventa contagiosa.
Non credo che un gesto gentile renda deboli, anzi. Penso che possa aprire le porte a una nuova storia per noi camionisti fatta di reciprocità e di rispetto.
Se rimaniamo chiusi in cabina a imprecare e ad azzardare manovre, anche se siamo nella ragione, finiamo per comunicare l’opposto. È un esercizio a una ribellione verso un’immagine che ci hanno sempre affibbiato.Â
Mario Calabresi, in un podcast (che consiglio) sul tema, sostiene che «l’aggressività , la maleducazione e il cattivismo, cioè il contrario di quello che con un insulto viene definito buonismo, abbiano le gambe corte». Funzionano sulla breve distanza, anzi sull’immediato. Sono un combustibile che brucia in fretta. Invece la gentilezza ha un passo lungo, non esclude né la tenacia, né la determinazione. Anzi, le rafforza.Â
È una virtù rivoluzionaria. E poi ho una certezza: le persone poco gentili invecchiano peggio, finiscono per essere ciniche, risentite, rabbiose. Essere gentili, al contrario, alimenta il buon umore e la speranza. Qualche volta dà persino coraggio e aiuta a vivere meglio. E noi, di speranza e buon umore abbiamo davvero bisogno.
Necessitiamo di carburanti efficienti in grado di rendere al meglio. Abbiamo un passo lungo e dobbiamo lavorare molto. Tanto vale vivere meglio. Tanto vale essere gentili.Â
Buon Viaggio!