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Quanto insegna un errore

Chissà come sarebbe stata la nostra vita se quei segni rossi riportati su un compito in classe fossero stati spiegati e compresi. Chissà quanti minori incidenti ci sarebbero se ognuno, di fronte agli imprevisti critici segnati dalla strada, sapesse già come reagire perché qualcuno glielo ha suggerito

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Sei piccolo e chino sui banchi di scuola. Sulla formica verde che li ricopre sono incisi i nomi di chi li aveva occupati prima di te. Le sedie di legno scheggiate e scomode rendono impossibile stare fermo, tranne in quel giorno. Il copione è sempre lo stesso: la porta si apre, la maestra compare e poggia i compiti corretti sulla cattedra. E lì parte l’attesa: tutti in classe restano come sospesi in una apnea generale. La maestra, quasi a prendersi sfacciatamente gioco della tua ansia, ci mette almeno un quarto d’ora prima di consegnare il tuo compito. Quel foglio coperto da una scrittura primitiva contiene la tua primissima responsabilità. E anche la tua prima domanda esistenziale: «Come fanno le maestre a decifrare le bislacche scritture di tutti?».
Scorri con lo sguardo il foglio transitando su parole che quasi non ricordi di aver scritto, per puntare dritto all’unica cosa che conta, quella che ti farà capire se sei stato bravo oppure no: il voto. Le premesse al voto, però, prendono la forma di tanti segni rossi. Ogni segno, un errore; tanti errori, un brutto voto.

Per strada, quando commetti un errore, i segni diventano neri e sono disegnati sull’asfalto dagli pneumatici che reagiscono alla pressione della frenata. Se ti va bene, non ci sarà impatto. Se va male aspetterai con ansia il giudizio, espresso in questo caso dall’assicurazione. Ma è proprio a quei segni che bisognerebbe prestare attenzione.
Per strada, come a scuola, gli errori andrebbero spiegati e compresi, magari corredati di alternativa, perché soltanto così, acquisendo una consapevolezza, si crea una cultura della sicurezza e si educa chi guida a comportamenti coscienti. Un segno senza un’analisi, invece, non sedimenta nulla nella scala dell’apprendimento.
Cultura e consapevolezza: ho cercato l’etimologia di queste parole e ho scoperto che la prima ha come radice «coltivare», la seconda «sapere insieme». Appare limpido, quindi, come essere sicuri sia un cammino e non un arrivo, un percorso di apprendimento costante e collettivo che nulla ha a che fare con un giudizio, una prestazione o un voto.
Per essere sicuri, allora, dovremmo provare a essere allievi e maestri contemporaneamente e farci carico di una responsabilità collettiva, perché se a scuola un «tre» pesa solo su di te, per strada un errore grave può ricadere su altri.
Noi autisti, per esempio, abbiamo il compito di tramandare alle nuove generazioni ciò che abbiamo appreso, anche tramite l’esperienza: un fissaggio del carico sbagliato, una sbandata rischiosa, una particolare accortezza nell’immissione, sono tutte cose che, raccontate a chi viene dopo di noi, possono seminare il primo livello di conoscenza per diventare un aiuto quando ci si troverà effettivamente in quelle situazioni.
Abbiamo il dovere di segnare in rosso e di motivare comportamenti scorretti come l’uso del telefono alla guida o il non indossare la cintura di sicurezza. Abbiamo il dovere di educare a comprendere che un professionista dispone di maggiori protezioni all’errore.
Abbiamo la responsabilità di far capire che non è bravo chi non rispetta le regole, ma chi le applica con naturalezza e chi tutela se stesso e gli altri dando l’esempio. Abbiamo il compito di tornare allievi, perché anche la tecnologia, che ci aiuta a essere più sicuri, va imparata per essere usata al meglio.
Abbiamo il dovere di ascoltare gli altri per capire cosa, dei propri schemi, non funziona e farci aiutare a vedere le cose da prospettive diverse.
Forse, per essere più sicuri tra formatori, professionisti e aspiranti tali va instaurato un rapporto di reciprocità, in cui tutti insegnano qualcosa all’altro, fanno tesoro delle proprie esperienze e diffondono cultura e consapevolezza.

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