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Io, camion in pensione

È arrivato all’improvviso il momento in cui avrei dovuto salutare il mio amico. Don Bic, lo chiamavo, il mio caro e vecchio camion. Un nome che porta con sé una storia carica di chilometri percorsi tra Nord e Sud con il suo primo proprietario e i segni di una tale usura da renderlo bicolore. Il mio ragazzone è andato in pensione da pochi mesi e, per lui, io sono stata soltanto una tappa, l’ultima di un viaggio lungo due milioni di chilometri. Come si sentirà quel bianco signore mentre rimane fermo in piazzale a osservarmi partire con un altro giovane camion? Ce lo racconta direttamente lui…

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Fermarsi e riposare non è male. Però – lo ammetto – l’idea di dover fermare i miei otto cilindri e tutti quei cavalli sempre stati pronti a cavalcare l’asfalto senza sosta e con fierezza, mi terrorizzava alquanto. Permette che mi presenti: mi chiamo Scania 164 v8 580. E qualche tempo fa soltanto a pronunciarlo il mio nome suscitava non poche voglie. E per me era una soddisfazione: bei tempi quando con ardore gli autisti mi desideravano. Anche se, nonostante gli evidenti segni di vecchiaia, qualche occhiata maliziosa l’ho ricevuta ancora, seppure mi sembrasse carica più di nostalgia che di vera attrazione.
Ora che sono qui, però, mentre osservo la mia ultima autista partire con il suo camion più recente, capisco che non era quel desiderio a tenermi vivo. Non era il ricordo dei tempi passati, l’ambizione di arrivare in posti distanti o l’orgoglio di essere popolare.
A tenermi vivo era la consapevolezza di essere utile e di avere qualcosa da dare, perché, a differenza degli esseri umani, noi lavoriamo sempre e solo per gli altri ed è in questa dimensione di “dono” che troviamo il nostro ruolo.
Mentre riposo, con la ghiaia bianca che riflette l’alba dai colori pastello, sento il peso della nostalgia e per quella non esiste rimorchio adatto.

Ho visto l’emozione negli occhi di chi aveva fatto sacrifici per avermi, l’entusiasmo mentre saliva nella mia cabina, la gioia di accarezzare le mie plastiche in cerca della certezza che il suo sogno fosse vero. L’ho accompagnato ovunque: sempre obbediente, sempre carico di cura nei suoi confronti, sempre ospitale.
Ho ascoltato e accolto tutte le sue emozioni, il suo sonno, la sua tensione e la sua paura, la speranza di farcela nonostante le difficoltà, la frustrazione che montava quando era necessario andare in officina.
Il mio impegno era essere il suo fedele compagno di viaggio… Ma lui, per me, è stato il mio unico motivo di esistenza. Noi camion non potremmo esistere senza qualcuno che creda in noi. Li vedo, i miei colleghi che capitano in mano a mille persone disinteressate, ho visto le loro grida di aiuto per un gesto d’affetto e mi verrebbe davvero voglia di urlare che noi non siamo e mai potremmo essere solo mezzi di lavoro. Bar –Padova come linea fissa per tantissimi anni agganciando tutti i rimorchi esistenti, ho portato pesi che a volte potevano essere eccezionali. E poi?

Poi è arrivata lei. Ed è stato strano: per uno come me, che appartiene alla vecchia scuola, di donne mica se ne vedevano molte un tempo.
«Oddio», pensai, «ora mi tocca fare il mulo della situazione», come quando a scuola di equitazione ti danno il cavallo vecchio più propenso ad obbedire, perché sfinito dalla stanchezza. La cosa mi terrorizzava.
Quanta pazienza che ho dovuto portare, quante marce sbagliate, quanta fretta di imparare, fino a quando non ha vinto il più testardo dei due: io.  A farle capire che si deve imparare ad ascoltare, a spiegare che ciò che conta è la costanza e non la velocità.
L’ho vista imparare a fidarsi di me e poi di lei, a capire i tempi dei giri motore per innestare bene le marce, a sollevare la frizione nel modo giusto e a non aspettare l’accensione della spia luminosa per sapere che qualcosa non va. E sapete una cosa? É stato bello poter insegnare. Perché, dopo una vita fatta di corse frenetiche, di carichi pesanti e di comandi impartiti da conducenti sicuri, rallentare e accogliere l’insicurezza di chi non sa come si fa mi ha ridato vigore. Dopo una vita a dimostrare di essere perfetto, trovare qualcuno che potesse accogliermi con i miei difetti è stato rilassante.

Dopo tanti anni alla rincorsa della gloria (e del fatturato) ho avuto un momento in cui dovevo mettermi nei panni altrui, ma anche uno spazio dove poter essere ascoltato, persino migliorato con le cure e le attenzioni di chi ha voglia di vedere il camion come uno spazio intimo. Lo dico sotto voce: mi sono piaciute molto le ultime tende in tono con le foderine, la riga bianca sul cruscotto e quelle piccole decorazioni.
Un modo nuovo di essere utile, un modo nuovo di esistere e un’opportunità di conoscermi sotto la luce della calma, della pazienza e della lentezza e anche della spensieratezza con il volume della musica decisamente troppo alto per le mie povere casse, con le risate di chi ha ancora tanto entusiasmo verso tutto ciò che fa.
Insegnare è stato più bello della consapevolezza di essere bravo, mi ha dato la possibilità di condividere ciò che avevo imparato con tanta fatica, facendo un regalo inestimabile a chi guidava con me: la mia conoscenza.
Insegnare, senza l’ansia di dimostrare, mi ha fatto scoprire che la vita ha molto più senso se il tuo scopo non è solo quello di ricevere, di raggiungere una gratificazione dell’ego, ma è anche e soprattutto quello di dare.
Mi ha dimostrato che ciò che hai qualcuno può togliertelo, ma quello che dai… quello no. Spero che se lo ricordino anche gli essere umani.
Ora mi godo felice e sereno le mie meritate giornate di riposo, sicuramente con un po’ di nostalgia dei lunghi viaggi e delle infinite consegne, consapevole però che qualcuno mi porterà nel cuore. Me lo merito: ho sempre fatto il mio dovere e, talvolta, qualcosa di più.

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