Ciò che sta accadendo sulla Terra a partire dagli ultimi cinquant’anni è un passaggio epocale, anzi geologico senza precedenti, un turbamento profondo e drammatico causato dall’azione degli esseri umani che va sotto il nome di «cambiamento climatico» o, secondo una definizione più recente e significativa, «cambiamento globale». Affrontare questa enorme crisi ambientale è la sfida più importante del nostro tempo ed è compito di ciascuno, a partire dai bisogni primari come per esempio l’alimentazione, perché non esiste salute individuale che prescinda dalla salute ambientale. Il rapporto tra il cibo e il relativo sistema agro-alimentare e i cambiamenti ambientali è complesso e imprescindibile.
Da un lato, il riscaldamento globale impoverisce la resa agricola e la rende insufficiente a soddisfare l’aumento esponenziale della domanda di cibo legata anche all’incremento demografico mondiale. D’altro canto, l’agricoltura, soprattutto quella intensiva, caratterizzata da monocolture destinate a soddisfare il fabbisogno alimentare degli allevamenti animali, è uno dei settori che emette più CO2, il più importante gas a effetto serra.
Non solo, ma la crescente richiesta di carne e derivati da parte della popolazione mondiale fa sì che l’agricoltura abbia bisogno di sempre maggiori fertilizzanti chimici e sempre maggiori spazi a scapito delle foreste. Il conseguente riscaldamento globale, inoltre, riduce la resa delle colture (cereali in particolare) rendendoli meno nutrienti e di qualità inferiore e crea importanti squilibri. Rispetto all’acqua, per esempio, in alcuni casi è troppa (inondazioni e alluvioni) in altri troppo poca (siccità). Fatto sta che tali squilibri hanno messo in crisi le economie di molti sistemi alimentari e aumentato in maniera drammatica la fame nel mondo. Ecco perché la tutela del pianeta non può prescindere da un cambiamento delle nostre abitudini alimentari e quando dico «nostre» mi riferisco soprattutto agli abitanti della parte più ricca della Terra.
Purtroppo, le indagini svolte finora rivelano che la maggior parte delle persone, benché consapevole del ruolo dell’alimentazione per la propria salute, non è abituata a pensare al cibo in modo globale né conosce le complesse relazioni tra cibo e cambiamento globale. Pochi, per esempio sanno cosa sia la «water footprint» (o «impronta idrica») di un prodotto, cioè l’acqua che, prelevata da un determinato territorio per coltivare e lavorare un determinato bene, si sposta con esso dal posto di produzione a quello di consumo. Per produrre un chilo di caffè servono più di undicimila litri di acqua e perciò l’Italia importa dall’Etiopia circa 95 milioni di metri cubi di acqua proprio sotto forma di chicchi da tostare. Dal momento che sia la malnutrizione sia l’obesità e la sindrome metabolica sono problemi di salute direttamente collegati ai modi di produzione, commercializzazione e consumo del cibo, sorge spontaneo chiedersi cosa possiamo fare.
«la crescente richiesta di carne e derivati da parte della popolazione mondiale fa sì che l’agricoltura abbia bisogno di sempre maggiori fertilizzanti chimici e sempre maggiori spazi a scapito delle foreste»
In primo luogo, è importante conoscere responsabilmente ciò che mangiamo, la sua provenienza e il relativo impatto ambientale: in questo modo sarà un po’ più difficile far finta di niente e, forse, anche riuscire a controllare la nostra voglia di cioccolato prendendo coscienza del fatto che le culture di cacao devastano le foreste tropicali in Costa d’Avorio, Ghana, Indonesia, Ecuador e Brasile. E poi ridurre il consumo di carne, in particolare carne bovina e latticini, passando a una dieta prevalentemente vegetale. Come sottolineano alcuni studi, la quantità massima di carne che una persona dovrebbe mangiare per la salvaguardia del pianeta dovrebbe essere equivalente al 10% delle calorie consumate.
Le Nazioni Unite, chiedono che questo passaggio avvenga in modo radicale e immediato. Però parlare in modo generico di «carne» è una semplificazione eccessiva. In Europa occidentale e negli Stati Uniti oggi una persona mangia in media ogni anno una quantità di carne che è circa 10 volte la quantità consumata nei paesi dell’Africa subsahariana, dove 220 milioni di persone hanno un’alimentazione inadeguata e potrebbero beneficiare da un maggiore consumo di proteine di origine animale. Non esiste, quindi, una soluzione adatta a tutti. Se la responsabilità fosse suddivisa a seconda dell’impatto nazionale, i paesi più ricchi dovrebbero accelerare con ancora più forza questa transizione ecologica.
Al momento purtroppo non è realistico aspettarsi dai paesi ricchi un cambiamento volontario di massa verso diete a prevalente base vegetale. Troppe persone non sono ancora in grado di mettere la questione ecologica in cima alle priorità, per motivi economici, culturali o educativi, così come troppi importanti produttori mondiali di carne e latticini non hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi e, dunque, non si impegnano a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Inoltre, si attendono sostituti della carne. E nell’attesa di alternative sostenibili alle proteine di origine animale (carne artificiale prodotta in laboratorio? Alghe? Insetti?) potremmo anche fare attenzione allo spreco alimentare.
Buon viaggio!