Il 31 dicembre 2019, le autorità sanitarie cinesi notificano un focolaio di casi di polmonite dalla causa sconosciuta nella città di Wuhan. Dieci giorni più tardi, il 9 gennaio 2020, il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie della Cina ne attribuisce l’eziologia a un nuovo coronavirus (provvisoriamente denominato 2019-nCoV, oggi SARS-CoV2) e un mese dopo l’Organizzazione Mondiale della Sanità battezza la malattia respiratoria causata dal 2019-nCoV con il nome di COVID-19. Così due anni e mezzo fa è iniziata la storia della pandemia che ha cambiato le abitudini e il volto del pianeta con più di 6 milioni di morti (due milioni circa solo in Europa). Un’infezione e una malattia nuove su cui la comunità scientifica internazionale continua a ricercare e a raccogliere dati e informazioni, ma che resta troppo recente per non incorrere in errori. Una sconvolgente novità che tuttora impone prudenza e gradualità, attenzione nella comunicazione, continui aggiustamenti di tiro e uso costante dei condizionali. Non per niente a inizio giugno di quest’anno, quando tutti pensavamo a una riduzione della circolazione del virus come accaduto nelle due estati precedenti, una variante sempre più contagiosa, chiamata Omicron 5, ci ha preso in contropiede e ha di nuovo sparigliato le carte e sconvolto previsioni e possibili scenari futuri. Eppure, senza abbassare minimamente la guardia, non bisogna credere che questa inattesa esplosione di contagi ci abbia riportato punto e a capo al 2020.
Oggi, grazie alla vaccinazione di massa, alla cosiddetta «immunità ibrida» delle tante persone che sono già entrate in contatto con il virus e alla disponibilità di farmaci antivirali estremamente efficaci se somministrati precocemente, la variante Omicron con le sue sottovarianti, anche se assai più contagiosa rispetto al ceppo di Wuhan, è meno virulenta e dunque la malattia è meno grave. Si potrebbe obiettare che in queste ultime settimane sono sempre di più le persone che contraggono l’infezione nonostante la vaccinazione. Questo non significa che i vaccini non funzionano. Al contrario, un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet Infectious Diseases mostra come, da dicembre 2020 a dicembre 2021, la vaccinazione abbia consentito di salvare la vita a più di 20 milioni di persone in 185 nazioni. C’è un però. Il virus corre e muta nel tempo e dunque ci si reinfetta perché l’ultima sottovariante Omicron sfugge alla protezione vaccinale che però continua a tutelarci da malattia, ospedalizzazioni, forme più gravi, ricoveri in terapia intensiva e decessi, come dimostrano i dati più recenti. Perciò in questa fase di circolazione così espansiva del virus è fondamentale completare il ciclo vaccinale per chi non l’ha ancora terminato e vaccinare con la quarta dose le persone a maggior rischio di patologie severe e di morte, cioè i pazienti fragili e gli ultrasessantenni. Questo consente anche di proteggere le persone che ci stanno intorno e di ridurre la circolazione complessiva del virus nell’ambiente. Bisogna farlo subito e mettere in sicurezza noi e gli altri, senza aspettare l’autunno e la prospettiva di vaccini “aggiornati” come i cosiddetti vaccini bivalenti che combinano il ceppo originale del virus con Omicron, vaccini che sono in fase di sperimentazione e che potranno essere comunque somministrati come richiamo. Sperando che arrivi l’era dei vaccini spray che, agendo a livello delle mucose, potrebbero rappresentare la strategia principe per proteggere dall’infezione oltre che dalla malattia, cosa che accade con poca efficienza con i vaccini attualmente disponibili.
Certo è che SARS-Cov2 è tutt’altro che sparito. Però, stiamo imparando a conoscerlo e ad affrontarlo. Nella migliore delle ipotesi diventerà endemico e dovremo in qualche modo conviverci.
Buon viaggio!