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Cosa prova l’autista in attesa

Un camion fermo è uno strumento produttivo che non genera fatturato. E quindi determina una perdita per un’azienda. Ma nella testa e nell’animo di un autista in attesa cosa accade? Durante quelle ore inutili, quelle bolle svuotate di tempo, la persona al volante cosa pensa? E poi, come reagisce quando in grave ritardo può finalmente ripartire? Ce lo racconta in prima persona chi l’ha vissuto sulla propria pelle

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Quando un ragazzo inizia a sognare di lavorare come camionista, si immagina sul suo mezzo preferito a fare linea, ovvero a percorrere lunghe distanze. Sogna di intraprendere viaggi in grado di contenere tutte le vite che vuole, viaggi che lascino spazio all’immaginazione, al senso di avventura, alla sensazione di eroismo nel guidare per ore, dominando la strada, macinando migliaia di chilometri.
La visione dell’autotrasporto, oggi, non è così romantica come agli occhi di un giovane aspirante autista, il sogno si interrompe inevitabilmente in un momento preciso: l’attesa.
Un’attesa che, all’inizio, poteva anche sembrare piacevole. Una piccola pausa tra i ritmi incessanti di un trasporto che fagocitava tutto, che rotolava veloce allo stesso ritmo dello pneumatico. Un sorso di tranquillità, come nella pubblicità dell’Estathé.
Poi, però, in quel sorso ci siamo letteralmente annegati e siamo tornati a sognare quei lunghi viaggi avventurosi, mentre aspettavamo che l’attesa logorasse anche i sogni.
Ancora una volta affrontiamo il tema dal punto di vista di una mancata produttività.
Produttività che serve, senza dubbio, ma che ci rimanda meramente al punto di vista economico, come se i camion fossero solo limoni da spremere. Peccato che io preferisca il thé alla pesca.
Quando si mettono sul piatto della bilancia le considerazioni da valutare, ci
si dimentica della componente umana: l’autista. Autista che, in questo sistema di ore rubate e deturpate dal loro significato di tempo, viene privato della sua identità. Cercherò di portarvi con me in cabina, per un attimo.

Dentro alla cabina, in attesa

Arrivate dopo ore di guida o alla quinta consegna, comunque dopo un po’ che lavorate (nella migliore delle ipotesi): ad accogliervi solo il nudo cemento e l’incertezza. Arriviamo così, con i nostri cavalli intrepidi e bramosi di correre ancora. Gli pneumatici che rigettano calore.
Siamo tutti schierati, uno accanto all’altro, in cerca di risposte o indicazioni. L’unica cosa che ci viene detta è che «Dobbiamo aspettare», ci chiameranno loro.
Abbandonati a noi stessi, ci facciamo compagnia con le nostre cabine che assorbono tutta la nostra esistenza. Rinchiusi in lamiere colorate con interni decorati e qualche nome appeso qua e là in cerca di notorietà, stiamo lì e aspettiamo che qualcuno si ricordi di noi.

Dentro alla psiche dell’autista in attesa

Cosa accade a quell’essere umano chiamato camionista, adesso?
Prima si riposa, chiama casa, magari un amico. Poi, quando ha chiamato anche il cugino di quindicesimo grado, quello che a Natale regala sempre i calzini con le renne, sbagliando pure il numero, inganna il tempo come può. Lasciando passare ore indefinite. Poi scende nel baratro del lungo e lento percorso di disumanizzazione.
Perché dimenticati in piazzali troppo piccoli per contenere tutti, privi non soltanto di risposte ma anche di servizi minimi di accoglienza (come i servizi igienici e di ristoro), iniziamo a dubitare di esistere. È un’espressione troppo forte? Diciamo che sembra lo scenario di qualche documentario talmente dirompente da non sembrare reale. Ed è proprio per questo che nessuno intorno a noi si ferma ad osservare: teme che soltanto guardando la coscienza potrebbe accusarne il colpo.

Dentro a un mondo girato dall’altra parte

Aspettiamo e siamo fuori dal mondo, iniziamo a estraniarci anche in quei pochissimi momenti in cui riusciamo ad avere una vita sociale e scambiare due chiacchiere tra colleghi. Non siamo più abituati a stare in mezzo al mondo normale.
La nostra presenza non conta, figuriamoci la nostra dignità. I primi anni facciamo di tutto per rimanere persone reali e tangibili, prendendoci cura di noi stessi il più possibile. Poi, arriva il momento in cui ci guardiamo allo specchio e ci diciamo: «Ma tanto, chi mi deve vedere?».
Così, i più coraggiosi e con un minimo di autostima, cominciano a cambiare strada e a cercare altre soluzioni lavorative.
E come può funzionare un settore ormai deserto?

Il contraccolpo dell’alienazione: nervosismo arrogante

L’attesa porta a un’alienazione totale. La comunicazione diventa nervosa, scontrosa e arrogante. «Cosa ne vuoi sapere tu di come si sta qui», è uno dei modi in cui rispondiamo dopo l’ennesimo tentativo di distrazione. Vale per tutti, dai colleghi all’ufficio traffico, fino ai nostri cari.
Siamo tutti, ormai, così distanti dalla realtà che ci sentiamo incompresi.
L’organizzazione – va da sé – diventa impossibile. Chiaramente c’è qualcuno che negli uffici logistici cerca di contenere i danni di questo logorante protrarsi del tempo senza motivazione. Noi lo sappiamo bene, lo comprendiamo e lo apprezziamo. Ma non possiamo fare un granché, se nessuno ci interpella, se anche in questa fase organizzativa siamo esclusi e ancora una volta invisibili.

La rincorsa stressata di esigenze altrui

Arriva poi il momento della liberazione, come carcerati dopo aver scontato una pena per una colpa non nostra. Siamo liberi, almeno così crediamo.
Perché ora è il momento di recuperare il tempo perso, sfrecciare al limite per cercare di portare a casa la giornata nel migliore dei modi o per trovare un’area di sosta che abbia posto per il riposo, senza dover anche incorrere in qualche sanzione.
Una gincana ferrata tra ritardi, normative, esigenze altrui. Superando, a volte, le condizioni di sicurezza. Non c’è tempo per fare tutto perfetto, bisogna scegliere.
E questa è la responsabilità più pesante, quella che purtroppo consideriamo solo quando accade qualcosa e che invece preme senza pietà sulle nostre spalle. Sempre più curve, sempre più stanche e deboli.
Oltre a sopportare un corpo che non riconosciamo più, non riusciamo a incastrare un’attività fisica regolare, non esistono possibilità per un pasto salutare, le aree di servizio spesso sono solo parcheggi vuoti, non c’è spazio per poter socializzare, per potersi rilassare uscendo dalla cabina.

Fili spezzati per connessioni non funzionanti

Dovremmo essere i fili che collegano il settore verso la destinazione – verso l’uscita finale un po’ come il filo di Arianna – e invece siamo fili interrotti di connessioni che non funzionano più, lasciati lì scoperti e insicuri con il peso di blocchi di cemento usurati e instabili.
Siamo arrabbiati e stanchi, prosciugati dai nostri entusiasmi ed estenuati da ciò che non riusciamo più a cambiare da soli.
L’attesa è la metafora della vita: si fa aspettare chi non ci interessa davvero.

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