Il titolo di copertina è: «Quel poco che resta del giorno». Avrebbe funzionato ugualmente «Quel tanto che già se n’è andato». Due punti di vista diversi per descrivere la stessa ansia: quella indotta dal tempo che passa inutilmente. L’intera prima parte di Uomini e Trasporti parla di questo: del troppo tempo trascorso prima di vedere saldata una fattura, del tanto tempo atteso per poter caricare o scaricare un camion, del tempo di guida consumato nell’attesa di un controllo alle frontiere o per onorare protocolli antivirus, del tempo biblico necessario a trovare sui tavoli della politica una soluzione ai problemi dell’autotrasporto, del tempo insondabile che trascorre da quando, individuata finalmente una soluzione e affidatala a una norma di legge, diventa poi necessario approvare un fantomatico decreto attuativo. Decreto che, semmai arriverà, lo farà con grave o gravissimo ritardo.
Non serve spiegare che l’attesa, se vana, crea reazioni dannose: per le aziende che hanno già dovuto annotare uscite senza beneficiare di entrate (e che su queste dovranno comunque versare imposte); per quelle che non riescono a effettuare una pianificazione dei viaggi, attività propedeutica a una qualsiasi impresa di autotrasporto; per quelle che, dopo aver speso soldi per acquisire e far circolare un veicolo, lo vedono poi fermo e improduttivo. In più c’è il danno di un sistema in cui vacilla la stessa certezza del diritto, lasciata in bilico tra la faticosa approvazione di un principio e la sua attuazione costantemente di là da venire.
Forse, bisogna spiegare un altro frutto maligno dell’attesa, più intimo e umano, al quale poco si pensa. Ammetto di essere riuscito a coglierlo dopo aver ricevuto una lettera di Francesco B. (potete ascoltarla integralmente sul nostro sito cercando l’episodio del 15 giugno del videocast K44 Risponde). In poche righe questo autotrasportatore descrive le attese costanti e reiterate che si creano presso un deposito livornese di una multinazionale (sì, proprio quella) costringendo decine e decine di autisti a rimanere tutti ammassati, sotto a un sole cocente come sotto a una pioggia torrenziale, «fuori da una porticina che accede a un container arrugginito».
La forza di ciò che riferisce sprigiona da due aspetti: il primo riguarda la relazione che si instaura tra chi aspetta e chi fa aspettare, tra l’inquietudine che monta nel primo e il menefreghismo («irrispettoso») che rimane fermo nel secondo. Francesco non condanna il singolo addetto e anzi lo descrive con le braccia allargate mentre spiega che lui, rispetto a quanto accade, non ha né controllo né responsabilità. Ma riferisce opportunamente che qualche tempo fa accanto a quel singolo addetto ce n’erano altri, facendo così intendere che la disorganizzazione di chi non riesce a far defluire una coda non è casuale, ma almeno in parte generata dalla scelta (calcolata) di voler tagliare i costi riducendo il personale. E poco importa se poi tale risparmio venga finanziato con il tempo e la pazienza spesi da tanti autisti.
Francesco poi va oltre e arriva a far percepire come un essere umano, lasciato per ore e ore a veder girare le lancette dell’orologio senza che nulla accada e senza che nessuno si senta di dover giustificare quel vuoto, finisca per far perdere persino la propria dignità. E inevitabilmente quando si è privati della considerazione di se stessi, quando si è spogliati della propria umanità (o si è «trattati come bestie»), si vorrebbe diventare invisibili, in particolare agli occhi delle persone care destinatarie di tanti sacrifici:
«Sarebbe umiliante – scrive Francesco – se un giorno mio figlio sapesse che tipo di vita ho dovuto fare per regalargli un’esistenza poco più che mediocre».
Pensavo fosse opportuno raccontare questo stato d’animo e magari farlo conoscere a chi in qualche modo lo provoca. Se poi alla conoscenza facesse seguito una migliore organizzazione, forse si eviterebbe di affievolire l’ultimo alito di passione di tanti autotrasportatori esperti e si indurrebbero alcuni giovani a pensare che questo lavoro, in fondo, non è così male.