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La logistica spiegata dai PM

14 mila persone: tante sono state quelle entrate nel settore del trasporto e della logistica con regolare contratto dopo le inchieste della procura di Milano su importanti realtà del settore. Chi tra qualche decennio si trovasse a giustificare questo dato farebbe non poca fatica. Eppure sono il sintomo di alcune lacune evidenti. Abbiamo provato a evidenziarle

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Quando tra qualche decennio gli studiosi delle dinamiche del mondo del lavoro si troveranno ad analizzare i dati occupazionali degli anni Venti del ventunesimo secolo faranno un balzo sulla sedia. Ad alimentare il loro stupore saranno in particolare quei 14 mila lavoratori che, senza apparenti ragioni congiunturali, nell’arco di una breve stagione entrarono nel trasporto e nella logistica tramite regolare contratto di assunzione. A rendere difficile in prospettiva la lettura del fenomeno sarà l’origine di questo salto occupazionale, da rintracciare non tanto nelle dinamiche del mercato del lavoro, ma in una serie di inchieste con cui la procura di Milano ipotizzò che tanti importanti operatori del settore – da DHL a BRT, da GLS a Schenker Italiana, da UPS a GXO – utilizzavano regolarmente manodopera mal pagata, reperita da consorzi e cooperative capaci di contenere il costo del lavoro tramite l’evasione dell’Iva e dei contributi previdenziali. Ancora più difficile sarà rintracciare la responsabilità, perché per i pm milanesi questa si muove lungo la filiera e quindi non va riferita soltanto a chi viola le norme e sfrutta la forza lavoro, ma si espande anche a chi di fatto la utilizza. Un’applicazione pratica di quel principio introdotto nell’autotrasporto con il decreto legislativo 286/2005, mai sufficientemente applicato nei fatti. Qui, invece, i beneficiari finali del malaffare non soltanto hanno subito il sequestro preventivo di beni per compensare le contribuzioni evase, ma sono stati indotti ad assumere quelle 14 mila persone spuntate all’improvviso nelle statistiche.

Tutta questa vicenda, a maggior ragione se osservata a posteriori, suscita diverse riflessioni. La prima è generata dalla reiterazione del modello: lo schema taglia-costi a cui tutte le società ricorrono è sempre il medesimo. La qualcosa potrebbe indurre, soprattutto chi osserverà il fenomeno con distanza temporale, a pensare che la logistica nei primi decenni del Duemila sia stato un settore incapace di creare marginalità e che quindi fosse costretto, pur di sopravvivere, a sotterfugi di varia illegalità. L’indizio principe per provare tale deficit va ricercato nelle dimensioni delle imprese, perché se a essere costrette agli espedienti ricordati erano realtà di grosso calibro, già avvantaggiate nei fatti dall’opportunità di stabilire relazioni privilegiate con la committenza e dal poter acquistare strumenti di lavoro a condizioni ottimali, non si capisce come potessero sopravvivere società prive di tali benefici e costrette – tanto per fare un esempio – a pagare un camion il 20-30 per cento in più.

La seconda riflessione esaspera la prospettiva storica. Perché se lo studioso del 2050 andasse ancora più a ritroso rispetto ai nostri anni Venti, scoprirebbe che la logistica inizia un processo di terziarizzazione negli anni Ottanta del Novecento, quando pezzi importanti di industria e commercio tentano di rendere meno gravosa la movimentazione dei materiali, affidandone la cura a società esterne specializzate, dotate di adeguate competenze professionali. La speranza era cioè che l’efficienza e l’alleggerimento degli oneri finanziari fosse conseguenza della fluidificazione dei flussi; scoprire che in realtà si conquistava per lo più con il ricorso sfrontato al lavoro di tanti disperati costringe a riconsiderare il processo e le modalità con cui viene attuato.

L’inchiesta milanese aiuta a rettificare quella convinzione diffusa che il trasporto di quanto acquistato on line sia sempre gratis. Dietro quelle consegne c’è comunque un costo: fino a ieri si poteva pensare che a volte per conquistare mercato se ne facesse carico la società venditrice, oggi appuriamo che lo si può distribuire in piccole parti sulle spalle di migliaia di invisibili lavoratori, a cui ora rende giustizia non un’organizzazione sindacale, ma un pubblico ministero

La terza riflessione riguarda Amazon Italia Transport, coinvolta nel filone soltanto nello scorso luglio, in quanto rappresenta l’evoluzione moderna del medesimo schema. Per i giudici milanesi, infatti, nel caso della società di e-commerce non serve risalire la filiera per spalmare responsabilità sorte altrove, in quanto a dimostrare l’esistenza di un suo potere direttivo nei riguardi di lavoratori dipendenti da altre realtà, sarebbe sufficiente il ricorso a un algoritmo in grado di monitorarli e di indirizzarli. E quindi ad assumere di fatto le vesti del datore di lavoro. In più, l’inchiesta milanese aiuta una volta per tutte a rettificare quella convinzione diffusa che il trasporto di quanto acquistato on line sia sempre gratis. Dietro quelle consegne c’è comunque un costo: fino a ieri si poteva pensare che a volte per conquistare mercato se ne facesse carico la società venditrice, oggi appuriamo che lo si può distribuire in piccole parti sulle spalle di migliaia di invisibili lavoratori, a cui ora rende giustizia non un’organizzazione sindacale, ma un pubblico ministero. Una sostituzione di ruoli difficile da comprendere, non soltanto per gli studiosi di domani.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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