Tutti avrebbero voluto che il decreto Rilancio avesse dedicato a loro stessi una pagina di articoli ricolmi di euro. Ma non può essere così. Un po’ perché avere un debito pubblico ingombrante quanto un trasporto eccezionale crea vincoli rigorosi: chi non ce l’ha – come la Germania – riesce a mettere sul piatto in un mattino 550 miliardi di euro “veri”; chi ce l’ha – come noi – si deve accontentare di qualche decina di miliardi in garanzie e crediti di imposta.
Un po’ perché non si può vivere nella convinzione che lo Stato sia una sanguisuga e che il commercialista si debba scegliere in base alla sua capacità di farci versare meno imposte possibili, e poi pretendere che lo Stato stesso restituisca quanto non ha incassato.
Un po’ perché in questa fase tutti avremmo qualcosa da recriminare a qualcuno, il quale a sua volta potrebbe fare altrettanto nei confronti di qualcun altro e così di seguito lungo tutte le filiere. E se a ogni recriminazione apponessimo carte bollate congeleremmo il nostro fin troppo imbalsamato sistema giudiziario. Sarebbe tanto più sensato se ognuno si facesse carico del suo aggravio, nella speranza che gli altri facciano altrettanto, così da ottenere un’equilibrata redistribuzione del costo totale della pandemia.
L’autotrasporto in questo meccanismo è un’eccezione. Seppure gravato da tante mancanze, infatti, non è stato il settore più penalizzato dal lockdown, anche perché al contrario di cantieri, alberghi e cinema, i cui fatturati sono rimasti a «zero» per mesi, di alcune tipologie di beni c’è sempre stato bisogno e, quindi, si è sempre chiesto a qualche camion di farsene carico. Il problema (fatta eccezione per quei segmenti legati a filiere bloccate) è venuto dopo, quando, portati a termine questi servizi di trasporto necessari, tante fatture sono rimaste non pagate. Per qualche committente sembra che il Covid abbia funzionato come una sorta di moratoria generalizzata rispetto a tutti i pagamenti. Ecco perché quando le associazioni di categoria del settore sono entrate nel cantiere del decreto Rilancio non hanno chiesto (come tutti) risorse finanziarie – tranne quelle già stanziate da tempo e ancora da erogare – quanto una norma in grado di tagliare le unghie proprio a chi non paga nei tempi dovuti. Al perché questa norma non abbia visto la luce (almeno nel decreto, seppure resti una speranza in fase di conversione), rispondiamo in altri articoli della rivista. Qui vorrei far notare che non è da oggi che il settore scopre di avere interlocutori poco solerti nei pagamenti. E non è da oggi che, rispetto ai possibili strumenti per educarli, individua come unica soluzione quella che passa da una tutela normativa. Sembra un assoluto, cioè, che senza un tale aiuto una piccola o media azienda di autotrasporto fatichi a ottenere soddisfazione a causa delle sue ridotte dimensioni e della sua debolezza contrattuale. Non è tutto. Perché mentre ci si preoccupa sul «quando» incassare, rischia di sfuggire di vista il «quanto». E invece alcuni processi in corso appaiono al riguardo preoccupanti. Basta navigare all’interno del nostro sito e verificare lo spettacolo che il quotidiano propone con puntualità: trasportatori da ultimo miglio, pagati a cottimo, stritolati dai meccanismi dell’e-commerce; aziende che utilizzano la manomissione del tachigrafo come strumento per salvaguardare la propria competitività; l’intero settore del trasporto container messo sotto ricatto da chi cerca in tutti i modi di tagliare le tariffe di trasporto; ma soprattutto tante imprese marginalizzate dal mercato a causa della concorrenza di altre, cresciute – come nel caso svelato dalla Finanza di Lodi – a colpi di sfruttamento degli autisti e di evasione fiscale. Nella fase attuale si rischia proprio questo: che dopo il virus si diffonda in tanti la voglia di recuperare il tempo perduto e i maggiori costi sofferti per rivalersi, in sfregio alla sicurezza, sulle parti deboli del mercato. Partendo, ovviamente, dalle tariffe di trasporto. Ecco perché sarebbe opportuno anche qui uno strumento normativo di salvaguarda. Ma non serve inventarlo: è stato concepito cinque anni fa e si chiama «costi di riferimento». E contro il contagio della tariffa selvaggia potrebbe funzionare meglio di un vaccino.