Il prefisso «anti» nella lingua italiana può avere due significati distinti. In un caso deriva dal greco «anti» che vuol dire «contro», in un altro fa riferimento al latino «ante» che equivale a «davanti o prima». Un prefisso a due facce con cui spiegare molte delle attuali contraddizioni della politica italiana. Faccio due esempi.
Se mi chiedo «Chi ha paura dell’antipolitica?» faccio riferimento a una tendenza montante che ha indotto una parte crescente dell’opinione pubblica a prendere le distanze dalla politica tradizionale, accusata da un paio di decenni di essere sprecona e autoreferenziale. Il corollario naturale di tale atteggiamento è di votare partiti che, a prescindere dalla sostanza dei programmi, mirano a mettere al bando una classe politica con metodi variabili. Si può cioè rottamare o usare la ruspa, ma l’obiettivo resta quello di distinguersi da chi ha governato prima. Da questo punto di vista, quindi, l’antipolitica non è un modo di fare politica, ma un’indole alla contrarietà che va poi misurato nei fatti. Spesso cioè l’antipolitico, nel momento in cui percepisce la fatica dello smantellamento, si contamina con ciò che va distruggendo. Spesso si ritrova simile al suo nemico di partenza.
Se invece nei tre mesi successivi alle elezioni del 4 marzo esclamo «Che noia l’antipolitica!»,voglio esprimere disappunto rispetto a quel viatico necessario per giungere a una politica di governo, disseminato di prassi più o meno consolidate e di dialoghi interlocutori con altri poteri, giustapposti in modo da attuare quella teoria, riferita a Montesquieu, secondo cui soltanto dividendo il potere si scongiurano derive autoritarie. Un viatico di per sé noioso, ma addirittura insopportabile se fatto precedere da una consultazione elettorale in cui vincenti e perdenti non sono messi in condizione di operare. Un viatico tedioso non soltanto perché fatto di estenuanti trattative e reiterate consultazioni, ma anche perché crea una sensazione analoga a quella percepita da chi, avendo invitato a cena altre persone e morso ormai dall’appetito, vede gli ospiti sull’uscio della sala da pranzo, incapaci di varcare la soglia.
Inutile ribadire – lo facciamo da troppo tempo – che l’autotrasporto italiano ha un appetito atavico di politica, essendo collassato sulle proprie gambe negli ultimi 10 anni perdendo la bellezza di 26.000 aziende. Inutile ribadire che è un settore nel guado, animato da un tessuto imprenditoriale disomogeneo, composto da tanti artigiani e diverse (ma ancora poche) aziende strutturate. E proprio per questo è un settore litigioso, capace di costruire momenti di sintesi tra le forze sociali, ma altrettanto pronto a rimetterle in discussione a ogni alito di vento. Lo scorso 5 maggio, nell’aula magna della sede bolognese di Federtrasporti, in cui Uomini e Trasportiaveva organizzato un convegno per presentare un volume dedicato al nuovo contratto collettivo dell’autotrasporto e a cui hanno aderito sette leader di associazioni di categoria, più che aliti di vento soffiavano tifoni, soltanto in parte sopiti da un esplicito invito all’unità alzatosi dalla platea dei trasportatori presenti. Disgregarsi ora – era il messaggio ribadito alla fine da tutti – è un lusso che non ci si può permettere.
Perché dopo più di un anno trascorso senza un interlocutore governativo, sui problemi atavici del settore si sono stratificati quelli dettati dal quotidiano. Così i trasporti eccezionali si sono rarefatti, i transiti in uscita dal Brennero si sono allungati a causa dei contingentamenti austriaci, i tempi burocratici delle motorizzazioni hanno ripreso quell’andamento inconciliabile con un paese unitario (brevi ed efficienti in alcune aree, insopportabilmente lunghi in altre), il processo di rinnovamento di un parco veicolare con un’età media di 13,7 anni (composto da mezzi – pensate – immatricolati quando facebook non era praticamente nato) si è del tutto arenato perché gli operatori, compresi quelli che hanno bisogno urgente di un nuovo camion, attendono la pubblicazione di un decreto che distribuisca quei 33,6 milioni di incentivi previsti nell’ultima legge di bilancio. Tutti problemi che possono trovare soluzione soltanto nella politica. Tutti problemi destinati ad aggravarsi mentre scorrono le interminabili immagini di questo spettacolo dell’antipolitica, che andrà avanti fino alle prossime elezioni generando frustrazioni e rancori. Sentimenti simili – mi si conceda – a quelli provati da chi, avendo urgente bisogno di un bagno, si trova costretto per ore a sostare in un antibagno.