In Italia esiste uno squilibrio tra diversi poteri dello Stato. No, non vi spaventate: non vi voglio parlare di politica, quanto della tendenza sempre più marcata della magistratura a colmare dei vuoti lasciati da altre istituzioni. Lo fa rispetto alle questioni etiche, ma anche all’interno del mondo del trasporto e della logistica. Nulla da obiettare, in verità, se non fosse che, nell’occupazione di questi spazi, i giudici si muovono spesso in modo schizofrenico, nel senso che da una parte assumono decisioni orientate in una direzione e, dall’altra, intraprendono azioni che sembrano smentire il fatto che quella direzione conduca effettivamente da qualche parte. Provo a tradurre in concreto.
Partiamo da un primo filone giurisprudenziale della Cassazione, quello che ritiene il trasportatore responsabile di un furto o di una rapina ai danni di un proprio veicolo. O anche quello – per restare all’argomento di questo numero monografico – che ritiene l’autista di un camion penalmente responsabile nel caso in cui il carico trasportato fuoriesca dal veicolo e finisca per investire mortalmente una persona. Ad accomunare le due sentenze, tematicamente distanti, è il tipo di professionalità pretesa dal giudice di turno nei confronti di chi si occupa di trasporto merci, sia esso titolare d’azienda o autista. Perché in entrambi i casi si presume che l’uomo del trasporto agisca sulla base di inappuntabili competenze e di solide capacità organizzative. Ma se per ragioni varie queste non dovessero essere sufficienti a evitare un danno a terzi, il trasportatore stesso sarà comunque costretto a risarcirlo. Il ragionamento è rigoroso: se parti da Milano per portare a Caserta un carico di merce preziosa e a causa del traffico giungi a destinazione quando il magazzino è già chiuso, non puoi dormire lì, sul piazzale antistante, perché se di notte arriva qualcuno e ti punta una pistola in faccia la colpa è tua. Per la semplice ragione che ti saresti dovuto organizzare per trovare un parcheggio in cui proteggere il veicolo anche se in zona non ce n’è. Allo stesso modo, se in una brutta curva il carico viene sbalzato via dal camion e finisce per investire innocenti di passaggio, la colpa è tua. Perché avresti dovuto usare cinghie e altri strumenti di fissaggio per tenere ancorata la merce, anche a dispetto delle più capricciose leggi della fisica.
… se in una brutta curva il carico viene sbalzato via dal camion e finisce per investire innocenti di passaggio, la colpa è tua. Perché avresti dovuto usare cinghie e altri strumenti di fissaggio per tenere ancorata la merce, anche a dispetto delle più capricciose leggi della fisica
Per leggere correttamente queste sentenze bisogna concentrarsi sull’interesse primario da proteggere, nel primo caso una merce talmente preziosa che il limite di responsabilità vettoriale non riuscirebbe a coprire e, nel secondo, la perdita di una vita umana. Perché in quest’ottica è plausibile che, per salvaguardare tali interessi, si pretenda da chi movimenta merci per conto terzi una professionalità senza macchie e senza peccato, esposta a una responsabilità onerosa e per molti versi oggettiva.
Non è invece plausibile che una figura professionale così protesa alla perfezione abbia riscontri pratici nella realtà. Perché, come la stessa giurisprudenza ci sta sempre più spesso insegnando (a forza di sottoporre ad amministrazione giudiziaria trasportatori e corrieri di calibro internazionale), tanta logistica italiana assomiglia sempre di più a una sorta di sepolcro imbiancato, che all’esterno riflette dimensione e organizzazione e poi all’interno nasconde montagne di spazzatura sotto ogni tappeto. Non serve ricordare i dettagli, i fittizi contratti di appalto utilizzati per simulare somministrazione di manodopera, il transito strutturale di lavoratori da una società all’altra per privarli di ogni forma di tutela assistenziale e previdenziale, la totale mancanza di formazione per gli autisti e addirittura il preteso obbligo a loro imposto di contribuire alle spese di acquisto dei veicoli. E allora, come si può pretendere da questi «disperati alla guida», da questi sottoposti a vincoli di caporalato, una professionalità assoluta? O detto altrimenti, se qualcuno di loro dovesse, magari pure con una qualche negligenza, provocare un incidente o addirittura la morte di una persona, in che modo potrebbero sostenere un congruo risarcimento?
Forse, quando un domani la giurisprudenza avrà terminato di fare pulizia all’interno dei colossi della logistica, sarà più agevole rispondere a queste domande. Fino ad allora, esprimere sui banchi di un tribunale dei principi estranei alla realtà è soltanto un esercizio di stile. Ineccepibile nella teoria, vano nella pratica.