La scorsa estate ho attraversato per qualche giorno la Francia. Sono rimasto colpito da una cosa: quando arrivi in una qualunque cittadina, le prime architetture che ti saltano agli occhi sono, insieme all’Hôtel de ville e alla prefettura, il tribunale (almeno nei centri più grandi) e il Liceo. Attirano l’attenzione perché sono esteticamente inattaccabili, posizionati in punti nevralgici e sempre manutenuti ad arte. E quando ho fatto notare a un cittadino locale che lo Stato con ogni evidenza spende molti soldi per ottenere quel risultato, mi ha risposto secco: «Lei non sa che soddisfazione ho provato quando ho accompagnato mio figlio in quella scuola, quando per la prima volta l’ho visto entrarci dentro». Così ho avuto chiaro che il senso dello Stato va coltivato. A parole e nei fatti. E che sentirsi parte di un paese che ti fa percepire come tuo un istituto scolastico, aiuta a coltivare il senso civico. E che giustamente ciò che è di tutti deve essere più bello di ciò che è soltanto di qualcuno.
Poi torni in Italia e partecipi a un convegno sull’aggregazione come àncora di salvezza per l’autotrasporto nazionale (lo si racconta a p. 24). È una prospettiva impossibile da criticare, a maggior ragione se venisse fatta propria da piccole aziende impossibilitate a competere con realtà sempre più grandi e sempre più frutto di acquisizioni. I vantaggi generabili da una struttura aggregativa, infatti, sono troppo evidenti: evita di bussare alle porte delle agenzie di intermediazione; consente di recuperare la percentuale che evapora nei passaggi di subvezione per incrementare il margine di chi si assume l’onere del trasporto; genera economie di scala sotto forma di acquisti collettivi; permette di investire tali risorse in infrastrutture logistiche e digitali; aiuta a trattare con la committenza in modo più orizzontale; mette in condizione chi guida di gestire pratiche complesse, come il recupero delle accise, i rimborsi autostradali, la concessione di un credito di imposta. E l’elenco potrebbe continuare a lungo…
Eppure, l’aggregazione oggi qui da noi non incontra molta fortuna. Per quale motivo è difficile da dire. Qualcuno ritiene che le norme adottate per incoraggiarla siano state zoppe, non prevedendo sanzioni per il divieto di subvezione (oltre il primo passaggio). Qualcuno ritiene che alcune forme aggregative – prima tra tutte la cooperativa – siano ormai bruciate dal punto di vista semantico, nel senso che evocano qualcosa di poco pulito a cui si ricorre, in particolare nella logistica, per contenere il costo del lavoro a sacrificio di qualche disperato. Qualcuno ritiene, sulla scorta della lezione pandemica, che ci si metta insieme, che ci si senta parte di un tutto soltanto quando si è in tangibile difficoltà.
Per capire meglio bisogna chiedere al titolare di una piccola impresa il perché preferisca lavorare come subvettore di un’altra azienda più grande (che magari è subvettrice di un’altra ancora maggiore), piuttosto che diventare socio di un consorzio o di una cooperativa. La risposta è sempre quella: perché non sopporta che queste strutture aggregative tengano per sé stesse una percentuale di quanto lui fattura con il suo trasporto. Non conta se sia il 5 o il 10%, conta il fastidio che prova nel vedere una parte dei guadagni che considera propri, finire a beneficio di una struttura collettiva che fatica a percepire come propria. Che gli trovi i viaggi, che gli curi l’amministrazione, che stia dietro a tutte quelle incombenze burocratiche di cui lui a malapena conosce l’esistenza, non conta. Preferisce lavorare come quarto vettore, piuttosto che stare in cooperativa.
D’altra parte, non c’è da stupirsi: in Italia quasi il 50% dei cittadini asseconderebbe la richiesta di una prestazione professionale in nero o la mancata emissione dello scontrino non chiedendo la fattura e praticamente tutti vanno da un commercialista anche per pagare meno imposte. Salvo poi lamentarsi se i processi durano troppo, se le liste di attesa per un esame diagnostico in ospedale sono infinite o se nelle scuole cadono, oltre ai soffitti, i livelli di competenza degli insegnanti. Esattamente ciò che quel signore francese non farà mai: pagherà le tasse perché è troppo fiero della scuola che frequenta suo figlio.
D’accordo, la Francia è diventata uno Stato diversi secoli prima di noi. Ma non è che fatichiamo ad aggregarci anche perché siamo poco avvezzi a sentire come nostra la cosa pubblica?