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EDITORIALE | Concentrati in un container

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Malcolm McLean aveva il bernoccolo degli affari. A farglielo spuntare era stata soprattutto la difficoltà ad accettare le attese. Nato nel 1913, alla fine degli anni Trenta acquisì nella Carolina del Nord un distributore di carburante, convinto che fosse un’attività dal futuro fiorente. Fino a quando non scoprì che il camion con cisterna che lo riforniva di benzina e gasolio, caricati in un deposito ad appena 45 chilometri di distanza, percepiva più dollari di quelli che lui guadagnava in una settimana. A quel punto si convinse ad aprire un’azienda di autotrasporti. Gli affari andavano bene. Troppo bene, perché la domanda di trasporti cresceva a un ritmo più veloce rispetto allo sviluppo delle infrastrutture. Così, strade inadeguate a far viaggiare camion sempre più numerosi divennero teatro di continue code. McLean provò a saltarle: un giorno, costeggiando l’Atlantico per andare a scaricare a New York, pensò che se avesse percorso via mare quell’intasato tratto avrebbe risparmiato tempo e stress. E tanto fece, dopo aver fatto realizzare apposta robuste passerelle con cui imbarcare i camion sulle navi.

L’intuizione gli sembrò talmente vincente che quando il governo americano mise in vendita a prezzi stracciati le petroliere utilizzate per la Seconda guerra mondiale, pensò bene di acquistarne un paio. Ma questa rincorsa dell’intermodale spiccò il volo quando un giorno, recatosi con il camion a prelevare un carico di cotone in un porto del New Jersey, trascorse in inutile attesa un’intera giornata, provando una sensazione simile a quella che i trasportatori italiani vivono quotidianamente per accedere al porto di Genova. A lui quel tempo congelato solleticò però un’intuizione geniale: «Ma perché – pensò – invece di scaricare la merce un pezzo alla volta, una scatola alla volta, una cassa alla volta, non la stipiamo tutta in un grande contenitore? Ma soprattutto perché non fare in modo che quel contenitore, sceso dalla nave, non possa essere appoggiato direttamente sul rimorchio del camion?». La risposta trovò forma il 26 aprile 1956, quando una delle due petroliere convertite partì da Newark per trasportare a Houston 58 contenitori di acciaio tutti uguali, lunghi poco più di 10,5 metri. Quel giorno non soltanto nacque il container, ma il commercio internazionale trovò una spinta eccezionale, perché il costo di trasporto passò da quasi 6 dollari a tonnellata ad appena 15 centesimi.

Le radici materiali della globalizzazione e quindi della delocalizzazione erano piantate. McLean, spirato nel 2001, non riuscì a vederle fiorite. In realtà, il trasporto containerizzato all’epoca aveva preso già piede e veniva utilizzato per quasi l’80% degli scambi mondiali. Non si era ancora affermato, invece, il cascame più pericoloso della containerizzazione, letteralmente esploso negli anni a venire sotto forma di concentrazione. I numeri lo dicono in modo inequivocabile. Quando morì McLean le prime dieci compagnie di trasporto container detenevano poco più del 10% del mercato mondiale, oggi sfiorano il 90%. Insieme alle loro quote sono cresciute le dimensioni delle navi, funzionali a generare maggiori economie di scala, e di conseguenza a far lievitare i loro utili. Ma soprattutto si è allargato a dismisura il perimetro del loro business, che dalle stive delle navi è sceso a terra, acquisendo prima i terminal e poi pezzi crescenti dell’offerta di trasporto ferroviario e stradale, così da assestare un duro colpo agli equilibri del mercato. Ciò che invece stenta a crescere è il livello delle imposte versato da queste compagnie, pari a circa un quarto, forse un quinto rispetto a quanto paga il più misero portuale italiano. Senza considerare che una parte delle imposte corrisposte da quel portuale spesso vengono destinate all’allargamento delle banchine o al dragaggio dei fondali dei porti, in modo da consentire l’attracco alle mega portacontainer. Senza considerare che spesso quella spesa, sostenuta in una stagione, è vanificata in quella successiva, quando cioè la compagnia, dopo aver scelto un porto come hub di riferimento, decide per propri interessi di trasferirsi altrove.

Uno scenario ricco tanto di concentrazioni quanto di contraddizioni complicate da sciogliere. E adesso non c’è nemmeno più McLean a poter suggerire una soluzione.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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