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EDITORIALE | Aspettando il 27 maggio

Finalmente si vota: il 26 maggio, giorno destinato alle elezioni europee, è arrivato. E questa è veramente una buona notizia. Tante volte, infatti, negli ultimi mesi ho avuto la sensazione che esistesse un doppio dibattito politico: uno di superficie, buono per raggranellare qualche voto, magari gettando fumo negli occhi dell’opinione pubblica, un altro sottotraccia, composto da temi troppo scomodi per essere affrontati prima di una consultazione elettorale. Chi vuoi che parli di aumento dell’Iva, di crisi libica, di impennata delle accise prima che la gente si rechi alle urne? Eppure, sono rimasto abbastanza sorpreso nel toccare con mano come in realtà in tanti, apparentemente distratti, siano interessati ad andare a pescare in questo fiume sotterraneo in cui annegano criticità spinose.

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Quando ad aprile abbiamo titolato, riferendoci agli autisti di camion, «E se li pagassimo di più?», abbiamo assistito a un’autentica reazione di massa. L’editoriale è stato condiviso sui social da oltre un migliaio di persone, in 155 lo hanno commentato e in diversi hanno inviato commenti e considerazioni tramite mail. Rispondere a tutti è impossibile. Mi preme però sottolineare come in tanti abbiano affrontato il tema della differenza esistente in Italia tra retribuzioni lorde e nette. Oscar Zabai, presidente di Autamarocchi, mi ha scritto in modo diretto: «Avrei preferito al suo ‘E se li pagassimo di più?’ aver letto: ‘E se lo Stato abbassasse i contributi che gravano sulla busta paga dell’autista?’».

Come potrei non essere d’accordo? La dimensione del nostro cuneo fiscale sul costo del lavoro è tale (47,7%, secondo l’Ocse) da costituire non soltanto una penalizzazione frustrante per datori di lavoro e lavoratori (quello che i primi versano è la metà di quello che i secondi percepiscono), ma anche un freno alla competitività internazionale delle imprese. E che quelle italiane subiscono la concorrenza delle aziende dell’Est perché sopportano un costo del lavoro enormemente più alto, lo abbiamo scritto fino alla nausea.

Visto in termini di politica economica, però, il problema non è volere, ma potere. Provo a spiegare in che senso. Tutti sanno che il costo del lavoro si distingue in salariale e non. Il primo va in tasca a chi lavora, il secondo si perde in due rivoli: imposte a carico di imprese e lavoratori; contributi previdenziali vari. Aggiungo che, se rispetto alla parte salariale, in Europa ci sono diversi paesi (Belgio, Svezia, Francia, Germania, ecc) a pagare di più, in quella non salariale siamo tra i big assoluti. Per quale motivo?

Facciamo rispondere i numeri. La spesa italiana per il welfare ammonta a circa 450 miliardi. Di questi, la metà serve a pagare le pensioni, un quarto le spese sanitarie, l’altro quarto gli oneri per assistenza e prestazioni temporanee. Il primo problema è che lo Stato incassa tramite i contributi soltanto una parte di questi soldi; per il resto deve colmare l’ammanco tramite il denaro che preleva da Irpef, Ires e altre imposte.

Il secondo problema è che questo sbilancio non si è creato ieri, ma tanti anni fa, al punto da funzionare sul nostro debito pubblico come una sorta di sanguisuga. Pensate che negli ultimi 36 anni il disavanzo esistente tra contributi versati e prestazioni fornite dagli enti previdenziali ha prodotto una perdita di 1.491 miliardi di euro, circa il 70% del nostro debito.

Preso coscienza di tutto questo si potrebbe dire: perché non cambiano? Ed è giusto. Il problema è che, comunque la si metta, i contributi di chi lavora oggi servono a pagare chi è già in pensione. Quindi se per noi oggi il grattacapo è pagare chi è andato in pensione con un monte contributivo irrisorio e a un’età praticamente post-adolescenziale, domani diventerà l’invecchiamento della popolazione, tale per cui i pensionati saranno in numero esorbitante rispetto ai lavoratori attivi. Senza considerare che tra questi ci sono decine di migliaia di distaccati che versano i contributi nel loro paese di origine, determinando così un ulteriore scompenso.

E allora a quei tanti che hanno commentato l’editoriale di aprile sostenendo che va ridotto il cuneo fiscale, volevo far presente che la situazione, valutata nel suo insieme, è più complessa di come sembra. Dal 27 maggio, però, potremo sperare che la politica la prenderà in considerazione. Tanto, almeno sperare non costa nulla.

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

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