Di anni ne ha solo 25, ma l’esperienza in cabina è ultraventennale. Come è possibile? Quando si cresce a bordo di un “gigantesco bestione”, come li definiva lei da piccola, è facile finire per innamorarsene e non voler mai più scendere. Lei è Jasmine Pojana, classe 1997 e orgogliosamente autista di camion come suo papà. Una “figlia d’arte” che ha fatto dell’autotrasporto il suo sogno e il suo futuro.
Quanti anni avevi la prima volta che sei salita su un camion?
La prima volta che sono salita in cabina con papà avevo appena tre anni. In pratica, in cabina ci sono cresciuta, perché appena ne avevo occasione viaggiavo con lui, sia sulle tratte nazionali che internazionali. Il ricordo più bello che conservo è di quando mi faceva sedere al posto di guida, mi sentivo importante. È così che è nato il mio desiderio di poter guidare veramente quei bestioni e non ho mai esitato a farlo. Appena ho potuto, a 21 anni, ho preso le patenti e ho iniziato a lavorare con papà.
Com’è lavorare con un genitore?
Non è sempre facile, bisogna far conciliare visioni diverse, per esempio nella gestione dell’azienda, e a volte lo scontro generazionale è inevitabile. L’importante però è sempre trovare un punto di incontro e riconoscere che una volta posso sbagliare io perché ho meno esperienza e una volta può sbagliare lui ad avere una visione meno moderna. In ogni modo, la sua presenza al mio fianco in cabina, soprattutto quando ero agli inizi, è stata fondamentale.
Quando hai iniziato a viaggiare da sola?
Una volta presa la CQC ho capito che era arrivato il momento che iniziassi a muovermi da sola, per capire davvero il lavoro e iniziare a cavarmela anche senza lui accanto che potesse consigliarmi o aiutarmi. E così ho preso il mio trattore con rimorchio telonato e ogni mattina partivo da Fontaniva, dove vivo, in direzione Venezia o Milano.
Perché parli al passato?
Dopo un brutto incidente nel febbraio del 2021 ho vissuto un momento difficile. Fortunatamente mi sono ripresa nel giro di poco e sono rimontata sul camion. Anche se l’incidente ha avuto un forte impatto su di me, ho pensato che ripartire subito fosse la cosa migliore da fare. Invece, qualche mese dopo, mi sono resa conto che avevo bisogno di una pausa e questa consapevolezza è coincisa con un’offerta di lavoro da parte di un’altra azienda di trasporto, che mi avrebbe però portata a lavorare in ufficio. Ho deciso di accettare e per circa un anno sono scesa dal camion. Ognuno ha i suoi limiti, mi sono detta, e io ho scelto di rispettare i miei.
Cosa ti ha spinto a ritornare?
Semplicemente mi mancava il camion. Ho sempre amato il mio lavoro, per quanto sia faticoso, e mi sono voluta rimettere in gioco, dimostrando a me stessa che anche io potevo fare quello che ha sempre fatto mio padre che, tra l’altro, in quel momento aveva bisogno di me. Oggi penso di aver trovato il giusto compromesso: viaggio con ritmi meno sostenuti e faccio tratte più brevi, in zona, e contemporaneamente do una mano in azienda a gestire la parte amministrativa.
Cosa ami di più del tuo lavoro?
Quando apro la porta del camion e salgo in cabina davanti a me si apre un altro mondo, mi sento una persona che ha realizzato un sogno, un obiettivo che mi ero posta. Mi ritrovo spesso a pensare al mio percorso e mi dico «Guarda dove sei arrivata!», nonostante i mille sacrifici e le insicurezze. Ma più di tutto amo la libertà di sentirmi una persona realizzata.
Cosa ti piace di meno invece?
Non ho ancora molta esperienza, ma per quel che ho visto e sperimentato, penso che dovrebbero esserci più strutture in grado di dare alle autiste più servizi, come un luogo sicuro in cui riposare la notte o servizi igienici adeguati. Devo poi ammettere che in strada si vede tanta maleducazione e inciviltà. Quando succede un incidente è facile dare la colpa ai camionisti solo perché guidiamo i mezzi più grandi, ma gli automobilisti spesso non si rendono conto che per noi è più difficile evitare determinate situazioni. Vorrei ci fosse più rispetto per il nostro lavoro.
Qual è per te la cosa più importante in cabina?
Due cose: un sedile comodo, che mi permetta di guidare per tante ore con una buona postura, e spazio a sufficienza, per potermi riposare adeguatamente e per poter portare con me tutto il necessario per un viaggio.
Tu sei giovanissima e i giovani in questo settore mancano. Dal tuo punto di vista, cosa bisogna fare per invertire la rotta?
Questo mestiere dovrebbe essere più liberalizzato. Mi spiego meglio. Le patenti costano una follia e prima di sborsare così tanti soldi una persona giovane giustamente prima ci riflette. Con qualche incentivo in più forse qualcosa cambierebbe.
I social possono aiutare a cambiare l’immagine della professione?
Penso che i social, se usati correttamente, possano dare un grandissimo profitto sia a livello di pubblicità che di immagine. Molti colleghi e colleghe, per esempio, documentano sui social la propria vita quotidiana in cabina, ed è un bel modo per far vedere che questo lavoro non è solo frenesia, traffico e attese. Ho conosciuto anche diverse colleghe grazie ai social e con alcune di loro si è instaurato un bel rapporto. Questa è la dimostrazione di come i social possano aiutare a innescare una sorta di confronto positivo. Portare poi questi rapporti dal virtuale al reale, conoscendole di persona, sarebbe ancora più bello.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Il progetto è di portare avanti l’azienda di famiglia insieme al mio ragazzo, che tra l’altro ho conosciuto in Autogrill proprio lavorando. Anche lui, infatti, fa il camionista e oggi lavora con me e papà. So però che ci devo andare con i piedi di piombo perché il mondo del trasporto non è semplice, i costi sono aumentati, sia delle materie prime che del gasolio, e di conseguenza è diventato ancora più difficile “starci dentro” con tutti i costi. Bisognerebbe adeguare le tariffe. Insomma, l’intenzione c’è, tanto che sto seguendo il corso per prendere l’attestato di professionalità per poter subentrare al ruolo di papà, ma dovrò tenere conto di tutti questi aspetti. Nonostante tutto però, so che questa strada mi darà sempre tante soddisfazioni.