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Chiara Belleggia. «Donna al volante? Pregiudizio costante»

Ha trent’anni e da dodici guida camion. Lo ha deciso perché li adora, perché era una professione che ha visto fare in famiglia. Ma poi, sulla strada, ha trovato una modalità tutto femminile di lavorare. Una modalità che colpisce: colleghi, poliziotti, insegnanti dei figli e chi in generale è convinto che questo sia un lavoro da coniugare soltanto al maschile.

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Tanta passione e un pizzico di follia. Mettersi in gioco, salire sul camion a 19 anni, non abbandonare il volante fino all’ottavo mese di gravidanza, tornare in cabina con una figlioletta di tre mesi addormentata nell’ovetto agganciato sul sedile accanto e lasciare la polizia stradale a bocca aperta quando la portiera della motrice si apre e a scendere è una ragazza con il pancione, dall’aspetto gentile, sorriso contagioso e costituzione esile. Chiara, che vive a una decina di chilometri da Roma, si trova spesso a demolire qualche tabù. Capita, infatti, che la maestra dell’asilo sia più portata a pensare che suo figlio abbia scambiato i ruoli genitoriali, anziché immaginare la possibilità che una donna possa fare la camionista. Anche i poliziotti, durante un normale controllo su strada, la guardano come un’aliena mentre esce dalla cabina. Ma Chiara ha fiducia: «Scenderò dal camion solo per la famiglia o per amore». Per ora non è stato necessario: il suo compagno l’aiuta con i due figli (ancora piccoli, una bimba di 7 anni e un maschietto di 4), lei si sporca le mani, lavora duro, porta gli amori con sé tatuati sulla sua pelle e guarda al suo mito: la Sirenetta Antonella che da anni sfreccia su un camion variopinto e bellissimo.

«Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia senza pregiudizi», confessa Chiara Belleggia, 30 anni, da 12 camionista: prima per la ditta di famiglia, poi come dipendente.

Come hai iniziato a lavorare un camion?
L’idea di fare questo lavoro è venuta da mio nonno materno che era un camionista. Anche mio papà ha una ditta di autotrasporto e quindi la vita mi ha portato ad appassionarmi.

Da bambina immaginavi di fare la camionista?
No. Quando ero piccola volevo fare il pompiere e guidare le autobotti. Ci ho provato, ma a causa di alcuni valori sballati nelle analisi, la cosa non è andata in porto.

Ti ricordi la prima volta che sei salita su un camion?
Forse a un anno.

Era un mezzo della ditta di tuo padre?
Sì, mio padre ha aperto la ditta nel 1970 e trasportava prima alimentari e poi materiali per l’edilizia. Io sui camion ci sono cresciuta. Il caso ha voluto che sia rimasta incinta a 22 anni della mia prima figlia e così ho dovuto rinunciare a un lavoro in Svizzera come perito meccanico progettista, che è quello per cui ho studiato. Quindi, tra la mancata partenza e l’arrivo di questa bimba, visto che già mi divertivo ad andare in giro con i mezzi di mio padre perché avevo le patenti professionali, ho pensato di fare questo lavoro. Ho sempre avuto una grande passione per i camion. Spesso dico che scenderei dal camion solo per la famiglia o per amore. Non si resta fuori casa, non si affronta la pioggia, la neve e i guasti se non si è mossi da un grande sentimento.

Hai partorito prima di iniziare?
No, ho iniziato tre anni prima di rimanere incinta. Durante la gravidanza sono stata seguita all’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina a Roma e, siccome avevamo un cantiere non molto lontano al Monte di Pietà, facevo coincidere i viaggi con le visite di controllo: arrivavo al cantiere mentre gli operai scaricavano, mi facevo una doccia, mi cambiavo e andavo a fare un’ecografia o un’altra visita. Per ottimizzare i tempi…

Fino a quanti mesi di gravidanza hai lavorato?
Fino all’ottavo inoltrato. Mia figlia Mara è nata il 18 gennaio e ho lavorato fino al 7 dicembre. Quando ero incinta del secondo figlio, Massimiliano, ho smesso un po’ prima a causa delle dimensioni della pancia. Comunque, facevo trasporti locali: la sera tornavo sempre a casa.

Com’è stata la gestione dei bambini quando erano molto piccoli?
Fortunatamente ho ripreso a lavorare subito perché erano tranquilli e mi facevano dormire. Ho avuto un grande aiuto da parte di mia sorella e di mia madre. Qualche volta Mara la portavo con me sull’ovetto nel camion: lei dormiva e io facevo le consegne. Comunque, anche adesso che i miei due figli sono abbastanza grandi, se non avessi l’aiuto del mio compagno, che di mestiere è meccanico, non potrei fare questo mestiere.

Com’è la vostra routine giornaliera?
Lui accompagna i bambini a scuola: io parto spesso di notte perché attualmente faccio trasporto alimentari. A volte, vado via alle 11 da casa e torno due giorni dopo. Quando rientro sto un giorno con loro.

Dormi in cabina? Come ti sei organizzata?
Sì, per me è una casa. Ti organizzi i tuoi spazi vitali. Questo lavoro aiuta molto a capire quali sono le cose essenziali e come eliminare il superfluo: si vive in uno spazio limitato, alle volte ti capita di starci in coppia come quando si fanno viaggi molto lunghi.

Quando ti fermi nelle aree di sosta sei l’unica donna?
No, capita anche di incontrarne altre. Vengono soprattutto da Austria e Olanda. Mi è capitato di fermarmi all’autogrill Umbria e di incontrare la “Sirenetta”, che però stava dormendo. Lei è una persona che mi piacerebbe conoscere. Mi sono innamorata di lei la prima volta che l’ho incontrata a Misano, l’anno in cui ero incinta di Mara, ma non sono riuscita a parlarci.
Come sono i rapporti con i colleghi maschi?
C’è chi ti guarda come un alieno, chi come una collega e chi con lo sguardo dice “vattene a casa a fare la calzetta”, come si dice a Roma.
Hai subìto delle avances?
I “provoloni” sono dappertutto, ma l’importante è dare a ognuno il proprio spazio. È così anche se fai la commessa.

È grande la ditta in cui lavori?
Ha una decina di mezzi.

Come si è posta la ditta che ti ha assunto? Immagino che su dieci camion tu sia l’unica donna…
No, eravamo tre. Poi una ha cambiato ditta e siamo rimaste in due. C’è un’altra ragazza che sta in ufficio, è un jolly: ha la patente e all’occorrenza monta sul camion. C’è sempre stato molto rispetto e i primi tempi si preoccupavano molto per me. Mi hanno trattato come una figlia, anche perché ero tra le più giovani.

Come vengono affrontate le necessità legate al ménage familiare?
Fortunatamente i miei figli si ammalano pochissimo. Comunque, il datore di lavoro ha capito che ho due figli e che per me sono la priorità.

E i bambini cosa dicono del tuo lavoro?
Dipende da come stanno emotivamente. Visto che sono separata, cerco sempre di fare il locale e di restare in zona nei giorni che sono con me. Sono anche molto orgogliosi del mio lavoro. Mara ha una maglietta con la scritta «Non importa quanto sia figa tua mamma, la mia è una camionista». Capitano anche cose strane. Per esempio, l’anno scorso quando Massimiliano ha iniziato l’asilo, parlando con le maestre, disse: «Mia madre porta il camioncione». La maestra gli rispose che forse intendeva dire «il papà». E lui: «No no, papà lavora con l’immondizia, mamma invece porta il camioncione». All’uscita della scuola la maestra mi ha fermato chiedendomi se il bambino confondesse me con il papà. Quando le ho detto che sono io a portare il camion, mi ha guardato meravigliata…

Ai tuoi bimbi piacciono i camion?
A Massimiliano molto, Mara è più «sì mi piacciono, ma voglio le bambole, la borsetta». Massimiliano dice sempre che da grande vuole fare il mio lavoro.

Che musica ascolti mentre viaggi e a cosa pensi?
Mentre guido i pensieri vanno alla famiglia: ai figli, al compagno che mi aspetta, a quando sarò a casa e mi godrò il loro abbraccio. Per la musica un po’ di tutto: mi piace Coez, i Boomdabash. Specialmente la notte, quando ascolto queste canzoni che mi fanno battere il cuore, penso a casa e allora mando un messaggio vocale con la canzone come dedica. È un modo per accorciare le distanze perché i chilometri sono tanti e la notte porta consiglio, ma anche pensieri.

Passi molto tempo da sola…
Sì, tanto. Se non riesci a stare da sola, vai fuori di testa. Magari ci sono colleghi che fanno altre tratte e ti tengono compagnia al telefono. Ma una chiamata dura al massimo 45 minuti. Nei momenti di silenzio se non sai stare da solo, è dura: allora ci sei tu, la luna – la grande compagna di viaggio – e la strada.

Ci pensi mai a quanto può essere sicura la tua strada?
Ci penso sempre. La prima tratta di linea l’ho fatta verso Odolo (BS) e al ritorno, all’altezza di Modena Sud, abbiamo visto un incidente: un camion che è passato sopra un altro autista che si era fermato a fare pipì. L’immagine di quel collega – anche se non lo conoscevo – ce l’ho sempre in mente. Era un viaggio spensierato, il primo viaggio di linea, ero carica. E vedere che tutto cambia con poco mi ha fatto pensare.

Lo senti lo stress degli orari, della consegna?
Fortunatamente no: non so se sono io brava a gestire i miei tempi o se è stato bravo chi mi ha insegnato a gestirli. Quindi, tranne una volta che non mi sentivo bene e ho fatto ritardo, sono sempre arrivata puntuale.

Ti capita di aspettare tanto al carico e allo scarico?
A volte sì… negli scarichi. La cosa che a noi autisti manca di più è il sonno. Quindi, quando posso mando un messaggio o faccio una telefonata a casa e poi dormo. Se mi sveglio prima che finiscano di scaricare prendo la pezzetta e pulisco la cabina.

Per Chiara c’è una netta differenza tra un conducente di autobus di linea urbani e quelli di camion merci: i primi se si rompe qualcosa chiamano in officina e aspettano il soccorso; i secondi, invece, si mettono lì, si sporcano le mani e provano a risolvere. «Essere autisti – sostiene – è anche questo».

Cosa mangi in viaggio?
Dipende da dove vado. Se sono viaggi di routine, conosco una trattoria buona o chiedo consigli ai colleghi con cui magari mi metto d’accordo per mangiare insieme. In Toscana, per esempio, polpette e tanta verdura. Se vado in posti nuovi dove non conosco mi porto sempre qualcosa: frutta, carote lesse – che adoro – e tante patatine, come se piovessero.

Le donne in questo settore sono pochissime e mancano gli autisti. Secondo te quali sono le cose che potrebbero invogliare le donne a fare le camioniste?
La prima cosa è che devi avere passione e follia. Se sei una persona abituata a stare a casa, allora non è questo il mestiere che fa al caso tuo. Se invece sei una donna con una certa luce negli occhi, se senti il bisogno di viaggiare, di stare “on the road”, allora sì. Quando sali su un mezzo del genere può succedere di tutto. Se sei una donna che si vuole mettere in gioco, questo è un bel gioco. Ho amiche che mi chiedono di accompagnarmi e quando le porto a bordo a loro piace, la sentono come una cosa diversa.

Magari parlandone, qualcosa si potrebbe muovere…
Sì. Tante volte mi dicono che siamo come gli autisti dell’Atac (azienda del trasporto pubblico romano, ndr), ma non è vero. L’autista dell’Atac se si rompe un pezzo, chiama in officina e aspetta il soccorso. Invece noi ci mettiamo lì, ci sporchiamo le mani e proviamo a risolvere. Essere autisti è anche questo. Ed ecco perché una donna che sceglie di fare questo lavoro deve essere pronta a mettersi in discussione. Oltre a fare la spesa, pulire casa e fare figli sappiamo fare altro. Una volta, sono rimasta ferma con il camion per una valvolina da due euro: ho provato e riprovato a sistemarla. Alla fine, all’una di notte, mi sono fermata, ho dormito e la mattina dopo ho comprato il pezzo di ricambio. È un mestiere che, ripeto, devi provare. Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia senza pregiudizi. Mio nonno, che era del 1930, mi ha sempre invogliato a guidare. Mio nonno sta qui (indicando i tatuaggi) e qui ho Massimiliano: «ti porto nel cuore perché per mano non posso». Questo è di Mara e questo è di mia nipote. Invece questo è lo schema delle marce del Renault Magnum, il primo mezzo che ho guidato da dipendente. Qui ci sono degli amici, qui altri nonni. La mia pelle è per la mia famiglia. È il mio modo per portarla con me.

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