Carla Arzenton è nata 60 anni fa nella casa di famiglia, in aperta campagna, a Ospedaletto Euganeo, un paesino in provincia di Padova circondato dalla nebbia d’inverno e dall’afa d’estate. E ancora oggi vive lì, dove, mentre parla, i ricordi riemergono dietro ogni cosa.
Il papà di Carla era agricoltore e trattorista. Quando lei nacque trovò impiego presso una ditta che installava pali della luce. La mamma era casalinga. Quando aveva appena 4 anni il papà la fece salire su un vecchio trattore Landini. E lei, malgrado piccolissima, aggrappata al volante riusciva a condurlo diritto senza sbandare. «Mi piaceva tantissimo – ricorda – In fondo quelli erano i miei giochi. Non ero abituata a stare con i bambini, non ne conoscevo. Intorno a casa mia c’erano solo parenti e vicini, tutta gente grande. Quando mi iscrissero all’asilo scappai: mi facevano paura quelle piccole creaturine. Non ero abituata a vederne!». Esperienze che modellano un carattere, rendendolo schivo e solitario.
Finita la scuola media Carla decide di iscriversi all’Istituto d’Arte, ma due anni dopo lo molla: «Io e l’arte – scherza – abbiamo sempre fatto a pugni!».
Il primo impiego la porta a lambire il mondo del trasporto e della movimentazione. Arriva a 24 anni, presso una fabbrica di vestiti, come magazziniera mulettista, lavoro che accompagnò Carla fin quasi alla soglia dei 40 anni.
Amore che viene, amore che va
A quel punto, a scombinare la sua vita, arriva l’amore. «Lui faceva il camionista, mi piaceva tantissimo, però era sempre fuori per lavoro…». Una distanza accettata male e che avrebbe fatto di tutto per rimuovere. E forse proprio questa pretesa creò una crepa irreparabile nel rapporto: «Mi lasciò perché diceva che non riuscivo a capire il suo lavoro! Forse aveva ragione. E siccome mio papà mi diceva sempre che per capire una cosa bisogna conoscerla, allora mi misi d’impegno a prendere le patenti per il camion: dovevo capire».E Carla capì in fretta come si faceva a guidare un camion. Anzi, capì così bene che, il mese dopo aver ottenuto la patente DE, trova posto in un’azienda che trasporta generi alimentari: «Mi assegnarono una motrice con cui giravo il Nord Italia. I primi tempi non sono stati semplici, anche perché non ho mai avuto nessuno ad affiancarmi: ho sempre fatto e imparato tutto da sola. Per fortuna ho grande memoria visiva: quello che vedo immagazzino e imparo. Però, purtroppo, tutto questo non è servito per riconquistare il mio ex. Siamo rimasti ottimi amici, ma non siamo mai tornati insieme, anche se per anni sono stata innamorata di lui».
Il machismo dilagante
Il rapporto con i colleghi uomini non sempre è “rose e fiori” per via dei soliti pregiudizi. Carla sopporta, abbozza, minimizza. Poi, un giorno, che ha ben stampato nella memoria, qualcosa le apre gli occhi: «Mi ricordo che ero presso una piattaforma logistica di Bassano del Grappa, quando si avvicina un collega, un ragazzo marocchino, e mi dice: ‘Vedi, io e te in questo lavoro siamo uguali: due extracomunitari. Perché è così che considerano anche voi donne. Se un domani avrai bisogno di aiuto per far valere i tuoi diritti chiamami: sarò felice di darti una mano’. E lì mi resi conto che aveva ragione: il mondo del trasporto è governato dal machismo! Noi donne veniamo pagate meno rispetto agli uomini, tocca sorbirci sempre commenti stupidi dai colleghi maschi e, purtroppo, molte volte veniamo trattate con sufficienza».
Trasporto ergo sum
Passano gli anni e Carla accumula tante esperienze diverse: «Ho guidato di tutto, dalle motrici ai bilici, dai trasporti eccezionali ai frigo. Nei momenti di crisi più duri ho fatto anche tre lavori pur di andare avanti. Con il frigo, per esempio, ho viaggiato tutta Europa per distribuire fiori. Ho rispolverato quel po’ di francese che avevo studiato a scuola e, grazie anche alla lingua dei gesti, me la sono sempre cavata. Anzi, direi che all’estero mi sono trovata sempre bene, specie in Francia i colleghi sono gentili e disponibili. Quando c’è stato il momento degli attacchi terroristici preceduti da furti di camion, per esempio, mi hanno sempre protetto. Magari venendo a parcheggiare il loro camion vicino al mio in sosta quando vedevano che ero una donna sola».
Il nonnismo tra gli inerti
Da una decina d’anni Carla si occupa di trasporto inerti in cava e ha cambiato diverse ditte: «Sono passata ai bilici lavorando con le vasche. Inizialmente mi hanno fatto fare il giro di un distributore e hanno appurato che sapevo guidare. Il lavoro di cava è considerato lo zoccolo duro del trasporto. E qui più che machismo c’è vero e proprio nonnismo. Io per fortuna me la sono sempre cavata, forse il mio carattere schivo e trasparente mi ha in qualche modo protetta». E non facile, perché in cava tra colleghi si fanno scherzi tremendi. «Quello più terribile è lo sgancio della ralla con la vasca piena. Per fortuna in genere si parte lentamente e così il semirimorchio si appoggia sul telaio senza conseguenze, tranne la scocciatura di dover scendere e ripetere tutte le operazioni per il riaggancio. Ma se parti veloce, fai danni veri. Ho assistito a un paio di colleghi a cui è capitato».Ma il nonnismo è l’antipasto. Poi ci sono anche le pietanze gustose, fatte di lavoro impegnativo fino allo strenuo. E in un caso è sorta anche una contesa legale: «Quando si lavora in cava non c’è orario. Nel periodo dell’asfalto, per esempio, non ci si ferma mai, nemmeno il sabato e la domenica. Un anno però l’ispettorato del lavoro inizia a effettuare costanti controlli dei cronotachigrafi presso una ditta per cui lavoravo all’epoca: nessuno di noi era in regola. Il conto finale era salato: una sanzione di 800 mila euro. La mia parte era di 30.000, ma in molti raggiungevano i 60.000. Ma siccome noi autisti non avevamo colpe, perché ci limitavamo a fare ciò che ci chiedevano, mi rivolsi al sindacato. Dopo lunghe trattative, quando tutti avevano perso le speranze e a combattere eravamo rimasti solo io e un collega rumeno, avemmo la meglio. Venne appurato una sorta di abuso d’ufficio dell’ispettorato e la multa, ridotta di parecchio, fu girata al datore di lavoro. Noi autisti fummo sollevati da tutto».
Educazione euganea
Poi, l’onda dei ricordi si interrompe. Carla si guarda intorno e non trova qualcosa. «Mio padre è scomparso nel 2004. Aveva solo 77 anni, ma era stato colpito dall’Alzheimer, una malattia tremenda». La mamma, invece, è ancora lì che vaga portandosi dietro i suoi 86 anni. «È una vecchina dolcissima – sottolinea – ma con me può essere ancora dura come un macigno». Educazione euganea, utile per imboccare la strada della vita – come diceva De Andrè – in direzione ostinata e contraria.C
TRATTI E RITRATTI
Carla aveva quattro anni quando il padre la mise al volante di un Landini Testa Calda, vale a dire dotato di un motore a due tempi monocilindrico in cui la combustione del carburante, al suo interno, avveniva grazie all’alta temperatura nella calotta della camera di combustione, posta dentro la testa del cilindro. La bimba non si scompose più di tanto e, stando ai racconti di chi c’era, riuscì a percorrere qualche metro tenendo un’andatura diritta.
Oggi Carla lavora con questo Mercedes Actros
non più nuovissimo, ma ancora tosto.
Qui è impegnata in un lavoro
di ripavimentazione
di una strada.
Carla guida camion da quando aveva poco meno di quarant’anni. Ha iniziato per capire il lavoro di un ex fidanzato camionista. Poi si è messa al volante di ogni tipo di mezzo, compresi gli eccezionali