«Le parole che usi dicono da dove vieni, quelle che scegli dove vuoi andare». Ho letto questa frase di Paolo Borzacchiello mentre ragionavo su cosa scrivere a proposito di transizione energetica. Ed è stata assolutamente illuminante. Ho capito, cioè, che la transizione è un ponte per arrivare a una sostenibilità, ma affinché tale condizione diventi possibile sono necessari tre pilastri: uno ambientale, uno sociale e uno economico.
Cosa vuol dire? Vuol dire che non inquinare potrebbe anche essere facile: se hai una fabbrica che sputa fuori emissioni nocive potrebbe essere sufficiente spegnerla per rispettare l’ambiente. Ma se tutto si riducesse a questo tanti dipendenti di quella fabbrica respirerebbero un’aria migliore, ma non avrebbero di che campare.
Chiavi e metamorfosi
Ecco perché ci vuole la chiave giusta. Perché se è soltanto simile, non ti porterà da nessuna parte. Cosa che ho imparato personalmente quel giorno che ero convinta di aver rotto la serratura del camion, ma in realtà provavo ad aprirlo con la chiave di un mio collega. E ovviamente non si apriva.
La chiave giusta, allora, è quella di scegliere quale autotrasporto condurre verso una transizione. Perché penso che, prima di instradarlo in questo complicato percorso, prima di poter giungere a destinazione, sia necessario ottenere una metamorfosi di tanti pezzi del settore.
Transizione e metamorfosi: apparentemente anche questi due termini sembrano simili. In realtà con «transizione» si indica un passaggio da una situazione a un’altra, sia in senso statico che dinamico, senza portare per forza a uno stravolgimento; «metamorfosi», invece, esprime un’autentica trasformazione della forma, presupponendo un mutamento della propria natura.
L’insostenibilità dell’attuale autotrasporto
Il punto è tutto qui: se buona parte dell’autotrasporto non muta la sua natura, se non si libera degli attuali processi, non potrà mai giungere a una transizione. E se anche ci arriverà, molto probabilmente non avrà di che campare. Lo dico ancora più chiaramente: tanto dell’attuale trasporto merci spesso non è sostenibile a causa delle modalità operative imposte dalla domanda. Quindi, gli si può anche chiedere di diventare sostenibile ricorrendo esclusivamente a veicoli elettrici, ma non ha molto senso. Anzi, finirebbe per essere un approccio semplicistico e fuorviante, perché elimina la scia di emissioni prodotta dall’autotrasporto, ma lascia intatta la sua sostanza. Ci si “adegua” al cambiamento imposto dall’Agenda 2030, senza però interiorizzarlo e condividerlo.
Per rendersene conto basta guardare alla condizione attuale del nostro settore, basata esclusivamente sulla disponibilità di mezzi e autisti e messo in crisi – di conseguenza – dalla loro carenza: pianificazione, organizzazione, visione strategica sono optional che trovano accesso in poche aziende. Prova ne sia che, nel vuoto lasciato dalla mancata programmazione, i tempi di attesa prendono il sopravvento e quasi eguagliano quelli del lavoro.
Da qui la domanda: ma l’elettromobilità è compatibile con tale improvvisata condizione? Secondo me è complicato. È complicato perché in un mondo elettrico i veicoli necessiteranno di soste più o meno lunghe per le ricariche, quando già oggi un autista arriva a guidare mediamente soltanto il 55% del tempo di una giornata lavorativa. Senza dimenticare che a tenere alta la media ci pensano quegli schiavi della distribuzione, spesso immolati sull’altare della fretta, perché chiamati a caricare frutta e verdura la sera a Bari per consegnare alle 5 del mattino in un qualche mercato generale del Nord. Se vogliamo far ricaricare questi camion ingoiati dalla notte dobbiamo prima sottoporre a metamorfosi questo sistema.
Ma è complicato anche perché il mondo elettrico necessita di ricariche e le apposite colonnine richiederanno spazio all’interno di quelle aree di sosta in cui oggi non riescono a trovare parcheggio nemmeno i camion. Allora non ho nulla contro le colonnine, ma non è possibile che in un’area di sosta diventino in numero superiore rispetto alle docce. Quindi, anche le aree vanno sottoposte a metamorfosi per rendere più dignitosa e umana la sosta di chi vi trascorre un terzo della propria vita lavorativa.
L’inquinamento da capricci della committenza
Ma è complicato soprattutto perché oggi tanta committenza del trasporto predica sostenibilità al mattino presto mostrando un animo quanto mai lindo e poi alle 13 invia gli ordini per avere la merce in consegna la sera stessa. E a quel punto, spesso, a farsi carico di quegli ordini non è un autista normalmente dedicato a quel giro, con i tempi calcolati insieme al pianificatore di percorso in dotazione con i veicoli elettrici. A caricare è qualcuno rientrato da chissà dove, stanco e provato, che magari raccatta qualche viaggio di ritorno per contenere al minimo i chilometri a vuoto percorsi. Perché oggi un trasporto è pagato (comunque poco) quasi sempre a percorrenza, anche se per portarlo a termine si brucia nell’attesa un’intera giornata lavorativa e, quindi, si cerca di recuperare qualcosa percorrendo tutti i chilometri previsti nel tempo che rimane.
E allora vogliamo sottoporre a metamorfosi queste modalità organizzative, questi ritmi insicuri e queste tariffe svuotate di margine prima di poter chiedere a un’azienda di pagare il triplo o il quadruplo per un camion elettrico?
Parole a forma di container
Sia chiaro: è giusto, doveroso e anche inevitabile parlare di transizione energetica, ma prima di metterla in pratica bisogna controllare bene con quale chiave si intende aprire la strada e chiedersi se non sia il caso, prima di incamminarsi, di rivedere l’intera filiera logistica, restituendole un assetto coerente – anche qui – con l’etimologia del termine (logistikos in greco significava «con senso logico»).
Le parole non sono bolle di sapone con cui lavarsi la coscienza o con cui far volare nell’aria discorsi estranei alla realtà. Le parole sono contenitori in cui caricare significati fattuali importanti.
Io non ho nulla contro la parola «transizione» o la parola «sostenibilità», ma se devo immaginare il mio futuro mi piace usare la parola «metamorfosi». Non mi interessa evolvere in qualcosa di simile, continuare cioè a lavorare in modo “sporco”, ma pulito soltanto in termini di emissioni. Mi piacerebbe stravolgere il settore, cancellarne le storture, fare in modo che al suo interno le persone abbiano più valore delle merci, che i ritmi di consegna siano più dilatati e umani e che la logistica faccia della “logica” il suo punto di forza.
In questo modo la transizione sarà non solo energetica, ambientale o sociale, ma globale. Tutte le risorse (anche umane) saranno preservate e avremo, finalmente, un trasporto che potrà compiere la sua funzione: mentre consegna le nostre necessità, ci trasporta verso il futuro che vogliamo davvero costruire.