Veicoli - logistica - professione

HomeRivista 2021373 dic 2021 / gen 2022Colloquio (intimo) con Fabio Telese, presidente di Vrent. «Il progresso? Un’immagine deformata del presente»

Colloquio (intimo) con Fabio Telese, presidente di Vrent. «Il progresso? Un’immagine deformata del presente»

-

«Tutti parlano di elettrico. Ma ho come l’impressione che per ora ci si limiti a parlare, prospettando fatti per anni di là da venire». Appare molto critico Fabio Telese, presidente di Vrent, quando parla di mobilità elettrica. E non certo per ragioni ambientali, quanto perché – sostiene in modo pratico, citando Henry Ford – «il progresso vero è quello che si ottiene quando una tecnologia diventa a uso di tutti. E io non credo che i tempi siano maturi per ottenere tale risultato». Ciò detto, ritiene corretto mettersi in cammino, ricercare, senza però dimenticare che il presente è fatto ancora da funzionali veicoli diesel.

Vrent, però, da un lato progetta il Ford Trucks 2633 VM – che è un diesel, seppure euro 6E – dall’altro distribuisce i veicoli VEM, 100% elettrici. Come si conciliano questi approcci?
Faccio una premessa. La mia attività non ha funzione didattica o deontologica, ma semplicemente attuatrice: coglie ciò che il mercato richiede e lo metto nella disponibilità di chi lo domanda. Partendo da questo punto di vista, se un autotrasportatore impegnato nel lungo raggio chiede un veicolo elettrico mi sento un po’ in imbarazzo. Anche perché se lo scopo è di natura ambientale, bisogna comunque risolvere problemi a monte. Non dimentichiamoci, cioè, che l’elettrico è ancora una presa in giro. Perché generare energia elettrica, almeno oggi, equivale a produrre inquinamento. Se però parliamo di operatori del settore della micrologistica, di city car o di ciclomotori elettrici, il discorso cambia, perché qui già oggi, rinforzando l’infrastruttura esistente, si possono ottenere vantaggi considerevoli. Insomma, per ora l’elettrico funziona bene con mezzi che pesano poco.

Qual è un’immagine che rappresenta la tua idea di progresso?
Immagino una persona che sale a bordo di un taxi per andare verso qualcosa di migliore. Penso a un taxi, a un mezzo di trasporto, perché l’essere umano – da Dante in poi – ha sempre avuto bisogno di un traghettatore per muoversi verso il progresso. Ma al tempo stesso il taxi trasmette un senso di ignoto, in quanto ritengo che non sempre nell’approssimarsi al progresso sia l’uomo a indicare una direzione e a impugnare direttamente un volante. Il progresso, cioè, ha una destinazione ignota: non se ne conosce il punto di arrivo, non si intuisce sempre la strada per arrivarci, però alla fine impone un prezzo da pagare.

Quanto ti senti passeggero e quanto tassista?
Mi sento sempre un po’ tassista. Però faccio soltanto corse brevi, mai lunghe, perché riesco a prevedere soltanto un breve orizzonte temporale. Nel senso che riesco ad anticipare il mercato, ad avere una visione di quanto accadrà, ma soltanto con stretto anticipo.

Cosa vuol dire in termini professionali?
C’è un film – Next (2007) di Lee Tamahori tratto da un racconto di Philip K. Dick – in cui Nicholas Cage interpreta la parte di un uomo in grado di prevedere il futuro due minuti prima che accada. Per me è un po’ lo stesso: sento vociferare che l’Ape Car verrà venduto nella versione elettrica soltanto in India e subito mi attivo per trovare un veicolo in grado di prenderne il posto e lo adatto alle esigenze del mercato con cui più interagisco. Ionelettric e Sofi-X sono nati così. Allo stesso modo quando qualche anno fa mi è stato detto a un salone internazionale che Ford Trucks, dopo la vittoria del premio di camion dell’anno, avrebbe allargato il suo perimetro distributivo in Europa e che in Italia non aveva ancora un importatore, subito mi sono attivato per costruire una cordata adeguata a questo scopo.

Costruire cordate, lavorare sul gioco di squadra, appare una costante del tuo approccio operativo.
È una compensazione: riesco a partire un attimo prima del mercato, ma non ho la presunzione di arrivare da solo. Si ha sempre bisogno di una squadra e io cerco di metterla insieme nel modo più adeguato per farla funzionare. Nel caso di Ford Trucks, per esempio, senza Giacomo Maurelli, senza la sua rete di distribuzione di ricambi e la sua esperienza nel mondo dell’assistenza, non sarei mai stato in grado di portare a termine l’operazione.

C’è un settore della conoscenza su cui ti piacerebbe investire?
L’ultima società entrata nell’orbita di VFM Company si chiama Vadcom e opera nell’ambito dell’IT. Penso sia una conoscenza decisiva, perché il mondo oggi è basato sulla tecnologia informatica e anche il progresso transita da lì. E comunque, tra un buon IT e un buon CFO, tra un tecnico informatico e un direttore finanziario entrambi capaci, scelgo il primo. Perché ti mette in condizione di non dipendere da nessuno. E il pensiero che la rete informatica si possa bloccare e lasciarti a terra mi spaventa.

Restiamo al concetto di progresso. Lo stand Vrent a Ecomondo era impreziosito da una statua – opera dello scultore norvegese Jone Kvie – che raffigura un astronauta inginocchiato. Cosa ti ha colpito di quest’opera per convincerti a esporla?
L’astronauta è un uomo proveniente da altri mondi, progredito tramite diverse esperienze. Il suo bagaglio non è molto accessibile: in testa, come a schermarlo, ha un casco, la cui visiera è uno specchio che riflette, ma produce anche una deformazione. Il primo livello di comunicazione, quindi, è immediato: il progresso è un’immagine deformata del presente. Ma ciò che mi colpisce è la relatività della deformazione, in quanto dipende da un punto di vista: quando osservi la statua, cioè, riesci a cogliere soltanto la deformazione di una parte di te, quella che si riflette, non tutto il tuo essere deformato. Quindi la deformazione è un processo che nasce rispetto all’esposizione della vita che tu stesso ti rimproveri. Ci si sente deformati perché probabilmente ci si è riflessi in uno specchio che ci ha deformato. Ognuno di noi può avere una frustrazione, ma soltanto alcuni specchi, soltanto una precisa angolazione, riescono a farcela cogliere.

Sofi-X riecheggia il nome della tua giovane figlia. Se potessi creare il mondo in cui vivrà tra trent’anni, come lo costruiresti?
Non punterei al mondo che si troverà di fronte e sul quale non ho capacità di influire. Cercherei piuttosto di prepararla alle diverse variabili del mondo. E a tale scopo ci sono due modi: aiutarla nel formare un carattere sereno, privo di complessi tali da indurla a dipendere da qualcuno capace di condizionarla; metterla in condizione di conoscere e di istruirsi per riuscire sempre a interpretare le cose. Così avrebbe due strumenti per essere libera.

Famiglia di origine, famiglia attuale, azienda: sono universi distinti o interconnessi?
Sono un universo unico e inscindibile perché ognuna è parte dell’altra. E si compensano reciprocamente e ti segnano in modo diverso. L’azienda, per esempio, mi serve per sdoganare me stesso, per rimuovere il senso di inadeguatezza che avevo da piccolo. Però, non voglio che questa paura egoistica che nutro nei confronti di me stesso, si riverberi su mia figlia.

In che senso?
Vedo le mie aziende crescere e provo forte tentazione a inseguire cose sempre più grandi. Mi rendo conto che tutto ciò potrebbe essere un vanto personale, ma anche generare un’ombra su mia figlia. Per questo sto lottando per creare qualcosa che non le cada addosso. Sto investendo cioè perché non diventi «la figlia di…». Per ora la vedo correre, saltellare, cantare felice. Controllerò sempre che tutto questo continui ad accadere

Daniele Di Ubaldo
Daniele Di Ubaldo
Direttore responsabile di Uomini e Trasporti

close-link