«Nulla sarà come prima». Una frase ricorrente di fronte a ogni tragedia avvenuta negli ultimi anni: tutto sarebbe dovuto cambiare dopo la guerra del Golfo (1990), poi dopo l’attacco alle Torri gemelle (2002), dopo la crisi economica (2008), dopo gli attentati dell’Isis (2013). Generalmente, tuttavia, chi pronuncia questo abusato ritornello prefigura un mondo, sì diverso, ma modellato sui propri desideri. Di fronte alla pandemia da Covid, alla trita espressione hanno fatto ricorso un po’ tutti: dall’antropologo britannico David Harvey che ha preannunciato la fine del neoliberismo, al campione del Barcellona Lionel Messi che ha precisato di suo: «Anche il calcio non sarà più lo stesso».
Per lo meno l’asso del Barcellona ha tentato di cambiare squadra. Il fatto che non ci sia riuscito dimostra che il cambiamento – comunque inevitabile – non sempre corrisponde alle nostre speranze ed è comunque difficile da realizzare. Con o senza pandemia che, al massimo, offre una lezione e un’opportunità a chi vuol capire la prima e cogliere la seconda. È il momento che sta attraversando il nostro autotrasporto, sensibilizzato a misurarsi con le incerte prospettive del futuro proprio per essere stato uno dei pochi settori a non fermarsi mai neppure in lockdown. Ciononostante, il bilancio del comparto è drammatico: il blocco di gran parte della produzione si è inevitabilmente ribaltato sul trasporto, che nel primo semestre 2020, secondo stime di Conftrasporto, ha perso il 24,2% dei traffici (il 31,2% il solo trasporto autostradale), con perdite che il 76% delle 600 imprese del campione ritiene non recuperabili nel bilancio dell’esercizio 2020.
E, dunque, mentre, si leccano le ferite (badando a non procurarsene altre) le imprese del settore stanno già cominciando a prepararsi al domani. Cercando prima di tutto di capire come sarà il futuro.
LA SALUTE PRIMA DI TUTTO
Il primo nodo è quello di una pandemia non ancora debellata. Problema non da poco per un settore il cui orizzonte non è limitato all’Italia, ma a un’Europa (e non solo) in cui il virus è ancora saldamente presente. Al primo punto dell’agenda, dunque, c’è la conferma delle misure fin qui adottate – distanziamento, mascherine, igienizzanti – a prescindere dalle indicazioni del governo. Che, dal canto suo, per sanificazioni e attrezzature di distanziamento ha stanziato 403 milioni di euro e per i dispositivi di sicurezza individuale ha concesso un credito d’imposta del 60% (poi ridimensionato dall’Agenzia delle Entrate in un più misero 15,64%, calcolato sulla base delle domande effettivamente pervenute).
§Ma al di là di contributi e rimborsi, spesso aleatori e ancor più speso tardivi (lo stesso Albo degli autotrasportatori ha lanciato ai primi di settembre un bando per erogare 3 milioni di contributi a copertura del 70% delle spese per sanificazione e DPI), le imprese del settore si sono date da fare in tutti i modi per garantire la massima sicurezza possibile a dipendenti e clienti, andando oltre (e spesso anticipando) le misure indicate dal governo. A cominciare dalle aziende più strutturate. Arcese Trasporti – oltre 2.800 dipendenti, 800 autocarri e 2.600 semirimorchi – ha attivato una copertura assicurativa per tutto il personale in Italia e Polonia, ha avviato un piano di sanificazione regolare per tutti i veicoli della flotta, ha riorganizzato i turni di lavoro e ristrutturato le postazioni per garantire il distanziamento, ha intensificato i cicli di pulizia dei locali, ha creato un comitato di gestione della crisi per tenere aggiornato il personale sul tema Covid.
Dal canto suo Fercam (3.350 unità di carico e 2.100 collaboratori diretti) ha ristrutturato gli uffici, ha tirato su barriere in plexiglass, ha aumentato a due metri la distanza di sicurezza interpersonale, ha testato nel grande magazzino di Bolzano le nuove tecnologie di sanificazione di grandi ambienti con macchinari per la nebulizzazione di liquidi e sta sperimentando un sistema di disinfezione delle casse mobili attraverso la saturazione con ozono.
Anche le imprese più piccole sono andate spesso oltre il dettato di legge. In tante hanno ristrutturato uffici, buttato giù pareti, installato barriere in plexiglass. Come la Cacif di Follonica, 50 mezzi impegnati soprattutto nel chimico, che ha anche fatto sottoporre subito tutti gli impiegati a indagine sierologica. «Abbiamo puntato su una prevenzione rigorosa», spiega il presidente del consorzio, Roberto Nocciolini, ma ammette che il vero problema è la fatica che fanno ancora le imprese a convincere i propri dipendenti al rispetto delle disposizioni. «Mettere la mascherina non è ancora entrato nella nostra mentalità», scuote la testa Nocciolini.
Difficoltà confermata da Massimo Bagnoli, amministratore delegato del Combitras di Cesena, 225 mezzi soprattutto per trasporti alimentari (vino e dolciumi), ammettendo che soprattutto nei magazzini «la mascherina è maldigerita ed è oggetto di aspre baruffe». Discussioni (e comportamenti scorretti) che rischiano di ricadere sull’impresa. Che succede se si scopre un contagiato? «Le norme non sono così chiare», si lamenta Bagnoli, «e allora seguiamo alla lettera quello che dice il governo». E, dopo una breve pausa, aggiunge: «Con la speranza che ci lascino lavorare».
MA IL LAVORO NON PUÒ FERMARSI
Perché la vera paura è quella: essere costretti a fermarsi. Per questo le aziende – ammaestrate dal Covid – si stanno organizzando per garantirsi continuità operativa, non soltanto nel caso che si verifichi la famigerata seconda ondata di contagi, ma anche per premunirsi di fronte a eventuali emergenze future. E allora, le imprese più strutturate hanno introdotto in azienda la figura del Risk Manager, per garantire la Business Continuity e il Disaster Recovery. Sembra uno scioglilingua, ma il sito di Fercam spiega bene di che si tratta. Innanzitutto non è una novità. Di Business Continuity Management si parla da mezzo secolo come «strategia di recupero in caso di malfunzionamento di sistemi informatici, causato da eventi distruttivi» e prevede investimenti per garantire il rapido recupero della normale attività. C’è addirittura lo standard ISO 22301 che ne definisce rigorosamente i parametri: delimitare le attività da preservare, individuare i punti critici relativi a processi, fornitori e clienti, definire un piano misurabile e «andare oltre il presente e farsi domande circa le proprie possibilità di sopravvivenza futura».
Anche Arcese Trasporti si muove sulla stessa strada. Emblematica la home page del suo sito, dove appare un operatore con mascherina e la scritta: «Covid-19: continuità operativa». Più in concreto il piano di continuità operativa l’ha spiegato, in una recente intervista, l’amministratore delegato, Pietro Guido Bertolone: «Abbiamo replicato sedi e funzioni, creando in pratica un processo di smart working operativo, anche dove uno smart working effettivo non si sarebbe potuto effettuare: in questi casi è stato necessario sostanzialmente replicare le basi fisiche, per poter subentrare immediatamente in caso di interruzione. E grazie a queste soluzioni, si può dire che siamo entrati nel periodo di crisi abbastanza sicuri dell’assetto costruito, riuscendo a garantire piena continuità operativa, senza alcuna interruzione».
PULIRE E SANIFICARE
Tutte le aziende di autotrasporto, le grandi come le piccole, hanno attuato piani speciali di gestione dell’emergenza sanitaria. Arcese Trasporti ha attivato una copertura assicurativa per tutto il personale, ha avviato un piano di sanificazione regolare per tutti i veicoli della flotta, ha riorganizzato i turni di lavoro e ristrutturato le postazioni per garantire il distanziamento. Fercam ha tirato su barriere in plexiglass, aumentato a due metri la distanza di sicurezza interpersonale, testato nuove tecnologie di sanificazione di grandi ambienti con macchinari per la nebulizzazione di liquidi. La Cacif di Follonica, invece, ha sottoposto tutti i dipendenti amministrativi a indagine sierologica.
LO SMART WORKING
Certamente l’aumento dell’impiego delle tecnologie è il principale effetto collaterale del Covid e del lockdown anche nell’autotrasporto, a cominciare dallo smart working (ma data la provvisorietà e la scarsa normativa in materia sarebbe meglio parlare di home working). Arcese Trasporti addirittura l’ha avviato già da gennaio in Cina, dove ha cinque filiali (Dalian, Guangzhou, Hong Kong, Shanghai, Shenzen). E nel pieno della crisi in Italia il lavoro telematico è arrivato a coprire il 50% dei dipendenti, circa 400 persone.
Anche Fercam ha «limitato la presenza fisica in azienda e gli stessi eventi aziendali, quando non è stato possibile posticiparli, sono stati svolti in video conferenza.
La spinta alle tecnologie ha investito anche le imprese di dimensioni minori, benché l’impatto del telelavoro sia stato relativo a causa del minor numero di dipendenti amministrativi. Combitrans non è andata oltre il 2%. «Perché», spiega Bagnoli, «il nostro lavoro si svolge sul campo: gli amministrativi preparano la numerazione dei colli e devono operare in magazzino». «Noi abbiamo alternato le ferie e limitato l’home working», aggiunge Nocciolini, che per gestire i 50 mezzi del Cacif ha cinque impiegati. Chi, invece, sullo smart working ha puntato prima ancora delle disposizioni del governo è stato il Conap di Fiorenzuola d’Arda (PC), 210 mezzi per chimico e petrolifero. Il suo presidente, Claudio Villa, ha fatto acquistare una decina di computer per i dipendenti, perché non era ancora stato varato il decreto che consentiva l’uso da casa di PC personali. E ha applicato il telelavoro a 21 dei 25 dipendenti. «Ora sto pensando di continuare», conclude, «offrendo la possibilità di utilizzarlo soprattutto alle lavoratrici madri che fossero d’accordo».
Dunque, lo smart working continuerà. Soprattutto nelle aziende di maggiori dimensioni. In Arcese, da giugno è partita l’alternanza lavoro-ufficio. «Probabilmente», osserva Bertolone, «diventerà nuova normalità, ma perché si consolidi deve essere gestita, pianificata e programmato per creare le migliori condizioni di lavoro possibili sia per le persone che per le aziende». La pandemia, aggiunge, «è certamente servita a superare alcune reticenze».
SMART WORKING A TAPPETO
Arcese ha avviato lo smart working già da gennaio in Cina, dove ha cinque filiali, mentre in Italia lo ha adottato sul 50% dei dipendenti. Il Conap di Fiorenzuola d’Arda (PC), partendo già prima del lockdown, ha raggiunto percentuali superiori all’85%.
LA SPINTA ALLE TECNOLOGIE
E non solo lo smart working. Su un punto tutti – grandi e piccoli – sono d’accordo: la pandemia ha accelerato l’impiego delle tecnologie. Arcese aveva già realizzato il passaggio della fonia dall’analogico a una piattaforma globale e la digitalizzazione dei processi di trasporto basata sulla dematerializzazione dei documenti. «Ci hanno permesso di rispondere al meglio durante la crisi», affermano ora, «ma siamo comunque consapevoli della necessità di rivedere la comune concezione di normalità e che il nostro business e quello dei nostri clienti si dovranno adattare e modificare».
Anche tra le aziende di dimensioni minori è un coro. «La pandemia ci ha fatto capire che le tecnologie sono necessarie», ammette Bagnoli. «Non che fossimo fermi. Da tempo investiamo cifre discrete sul nostro software. Ma fino a ieri qualcuno storceva il naso, oggi sono tutti convinti». E Nocciolini aggiunge che la sua Cacif aveva già in programma di aggiornare il software: «Abbiamo accelerato i tempi. Anche perché abbiamo scoperto nuovi tipi di incontro con il cliente: anche se il rapporto diretto resta importante, ormai molto spesso invece di andare di persona restiamo in contato via computer. E poi vuoi mettere ricevere la bolla dall’autista via telefonino senza che debba passare per forza in azienda?».
Vantaggi che, invece, Villa conosce già bene: «Da questo punto di vista, il petrolifero è un settore avanzato: ordini e carichi si stabiliscono sui portali e gli autisti li stampano direttamente sul camion. Per questo sulle tecnologie in azienda spingiamo da sempre. Ma, paradossalmente, a noi la pandemia ci ha rallentato: stavamo chiudendo per rinnovare il nostro software, ma a causa del lockdown abbiamo dovuto rallentare gli incontri con i programmatori».
Perché se è vero che tutti guardano alle tecnologie post-Covid non solo come garanzia sanitaria, ma anche come business da sviluppare, anche lì i problemi non mancano. «Spesso», osserva Bertolone, «la digitalizzazione è dichiarata, ma non agita, perché oggi è ancora difficile avere standard di processo – sia amministrativi che fiscali – non solo a livello di singoli Stati, ma anche a livello europeo».
E infatti il Regolamento sulle informazioni elettroniche per il trasporto delle merci (eFTI) è stato appena pubblicato ed entrerà in vigore nell’agosto 2024. Ma la stessa Raluca Marian, delegata generale della Delegazione Permanente IRU presso l’Unione Europea, lo ha definito «un punto di partenza».
Non stupisce, perciò, che obiezioni simili vengano da Paolo Moggi, responsabile Qualità, Sicurezza e Ambiente del Gruppo Federtrasporti: «Ci vogliono regole più certe, standard più uniformi. I documenti di trasporto non sono tutti uguali. E poi manca una piattaforma condivisa. Ci sono imprese che sono costrette ad avere anche cinque-sei computer, ciascuno dedicato al software di un solo cliente». Ma non è soltanto la mancanza di regole e di standard a rallentare l’innovazione. È lo stesso Moggi a ricordare le carenze della rete: «Molte imprese si lamentano della minore qualità del lavoro, dovuto alla lentezza dei collegamenti». Un po’ come è avvenuto nelle scuole per la didattica a distanza. Inevitabile in un Paese in cui la banda larga ultraveloce raggiunge il 24% della popolazione, contro la media Ue del 60%.
LA FLESSIBILITÀ CHE VA OLTRE IL TRASPORTO
Uno degli insegnamenti del Covid si chiama flessibilità. Cosa vuol dire? In termini pratici, spiegano in Fercam, significa non gestire soltanto il trasporto, ma anche altri momenti precedenti e successivi. Un esempio lampante si è avuto con i banchi di scuola: la società trentina ne ha consegnati in due giorni i primi 2.775 e si è occupata anche del loro montaggio in aula.
IL MERCATO DELL’E-COMMERCE
Ma – nonostante la lentezza della rete, la confusione di normative, la mancanza di piattaforme condivise – il luogo in cui la pandemia si è coniugata meglio con la tecnologia, lasciando un segno probabilmente indelebile, è il mercato. L’e-commerce sta registrando dati di crescita clamorosi. Uno studio dell’Osservatorio e-commerce B2C, promosso dal Politecnico di Milano, stima che nel 2020 le vendite online registreranno un picco complessivo del +26% rispetto allo scorso anno (del 42% per i soli acquisti da smartphone), raggiungendo quota 22,7 miliardi di euro. È l’incremento più alto di sempre, per una modalità di acquisto già in crescita esponenziale. Ciò vuol dire che gran parte del trasporto retail è sempre più rivolto al consumatore. Una rivoluzione che accelererà un processo, già in corso da tempo, di ristrutturazione delle consegne. Si chiama omnicanalità e consiste nell’integrazione fra internet e negozi: dunque anche click&collect (acquisto online e ritiro in negozio) o (magari per provare un capo) visita in negozio e acquisto online, oppure acquisto in rete e restituzione in negozio.
Ma come posizionarsi in un mercato sempre più parcellizzato dal singolo cliente finale? Oltre a un richiamo generico alla flessibilità, le risposte sono diverse e legate più che alle dimensioni dell’azienda, al genere merceologico trattato. Chi lavora per l’industria ne risente meno. «Già da qualche anno teniamo l’e-commerce sotto osservazione», spiega Bagnoli, «ma pensavamo fosse un mercato per pochi, non per la signora Maria. Il problema, però, più che per i trasportatori, sarà per gli intermediari. Il cambiamento è dalla piattaforma alla consegna». Anche Arcese Trasporti (che tra i propri clienti annovera big del settore) è sulla stessa linea. «Le nostre attività attuali a servizio dell’e-commerce», afferma Bertolone, «non risentono della frammentazione della domanda poiché dal nostro lato la viviamo in maniera aggregata. La flessibilità richiesta da questo comparto è comunque già nel nostro DNA perché è una prerogativa dei nostri clienti nei servizi che offriamo».
Ma c’è flessibilità e flessibilità. Chi la sta declinando dovunque possibile è Fercam. Le squadre specializzate dell’unità Home Delivery, spiega il responsabile Marco Gentile, «si occupano di trasporto, consegna al piano, montaggio, installazione ed eventuale test di funzionamento di apparecchiature elettroniche. Non solo, gestiamo ritiro e smaltimento di imballi, ove previsto prendiamo in consegna l’usato e, attraverso la nostra rete distributiva professionale e collaudata, garantiamo ritiro e smaltimento dei rifiuti RAEE nel rispetto delle vigenti normative europee». Ma è flessibilità anche la consegna, nei tempi (velocissimi) previsti, dei banchi di scuola, montaggio in aula compreso. L’unità Transport ne ha consegnati (e montati) in due giorni i primi 2.775 pezzi (1.787 banchi e 988 sedute) in trenta istituti scolastici della provincia di Bolzano, un paio di settimane prima dell’apertura delle scuole. Ed è ancora flessibilità l’offerta della unità Traslochi non solo di trasportare mobili da ufficio, pannelli di protezione, barriere in plexiglass, ma anche di riprogettare gli spazi insieme al cliente e di riallestirne gli uffici secondo le norme di sicurezza.
Ancora non è il futuro, ma quasi. Nel trasporto e nella logistica la pandemia sta accelerando un processo che vede sempre più vicini intelligenza artificiale, realtà aumentata, robotizzazione dei magazzini (entro il 2023 se ne stima l’impiego in oltre il 30% dei depositi), image technology per monitorare gli assortimenti sugli scaffali, digital twin 3D dei prodotti per facilitarne la personalizzazione on demand. Ma i più vicini sono i droni. Amazon ha ottenuto l’autorizzazione a trasportare con velivoli a guida autonoma pacchi fino a cinque libbre (2,3 kg); SF Express, uno dei principali corrieri cinesi, ha sperimentato un mega drone capace di trasportare un carico di 1,5 ton in un vano di 15 metri cubi.
A cosa porterà questo inseguimento disperato del singolo cliente finale? In cosa si tradurrà la flessibilità indotta dall’e-commerce ed esasperata della pandemia? Difficile dirlo. Ma sotto questo tipo di pressione, le risposte possono essere diverse. «Stiamo attenti», osserva Bagnoli, «che la flessibilità non si traduca nell’immigrato che fa le consegne a solo due euro l’una, con un camion vecchio, malridotto e inquinante».
Perché in questo caso, altro che «nulla sarà come prima». Bisognerebbe rispolverare un altro motto: «Tutto deve cambiare, perché nulla cambi».