Quando in Italia si usa l’espressione «semplificazione burocratica» è bene preoccuparsi. Nei giorni del lockdown, per velocizzare gli adempimenti di chi poteva circolare, si è fatto ricorso all’autocertificazione, strumento principe di semplificazione burocratica: il sottoscritto dichiara «questo e quello» e se ne assume la responsabilità. Troppo semplice: il nostro modulo da sottoscrivere è cambiato cinque volte, per inseguire alla lettera le continue variazioni della normativa.
L’allergia italiana alla semplificazione dev’essere una questione genetica manifestatasi anche sul decreto legge omonimo che, dopo un tormentato Consiglio dei ministri durato quattro ore, è stato approvato con l’ormai abusata formula del «salvo intese», a dissimulare i dissensi all’interno della maggioranza, nella notte di martedì 7 luglio e inviato soltanto sabato 11 alla Ragioneria generale dello Stato per la «bollinatura» (la verifica della compatibilità finanziaria delle norme). Cosicché soltanto il 17 luglio il testo definitivo è stato reso noto, nonostante fonti di palazzo Chigi già prima si fossero premurate di precisare che i nodi in sospeso riguardavano pochi aspetti «tecnici e non politici» e la ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti, Paola De Micheli, avesse tranquillizzato che il testo sarebbe arrivato «in due, tre giorni».
NIENTE PER L’AUTOTRASPORTO
Un ritardo che ha reso faticoso capire subito che per l’autotrasporto non c’era nulla. Il primo a protestare è stato il presidente di Anita, Thomas Baumgartner: «Nessuna traccia di interventi rilevanti per il settore», ha subito denunciato, «sembra esserci nella bozza all’esame del Consiglio dei ministri e francamente non ne capiamo la ragione», lamentando soprattutto l’assenza dell’estensione delle revisioni ai privati per rimorchi e semirimorchi e la mancanza di risposte alla richiesta di Anita di «abolire il calendario dei divieti di circolazione». E pochi giorni dopo ha scritto una lettera alla ministra, firmata da cento aziende iscritte all’associazione, aggiungendo alla lista «la digitalizzazione delle lettere di vettura» e «l’utilizzo di mezzi più lunghi come già in atto in altri paesi europei», oltre alle misure «di sostegno economico richieste per evitare che il trasporto merci e la logistica sprofondino in una crisi senza precedenti».
Ma soprattutto a leggere il testo non c’è nulla di quello che nell’incontro del 5 giugno tra la ministra e Unatras era stato promesso che ci sarebbe stato: nulla sui tempi di pagamento (estensione al settore delle norme in vigore per l’autotrasporto e controlli da affidare all’Autorità per la concorrenza), nulla sulle revisioni di rimorchi e semirimorchi, nulla sull’esclusione del settore dal contributo all’Autorità per i Trasporti (che ogni anno continua a chiederlo nonostante la bocciatura della Corte costituzionale e del TAR).
FIDUCIA NELLA MINISTRA
Cautamente, tuttavia, la presidenza di Unatras, riunitasi mercoledì 15 luglio, ha preferito tacere e prendere tempo: in fondo, è stato il ragionamento, stiamo attraversando un momento d’emergenza e poi c’è sempre la possibilità di introdurre gli impegni promessi con qualche emendamento nel corso del dibattito sulla legge di conversione del decreto. Ipotesi che, però, comporta il rischio – ormai frequente – di un voto di fiducia che bloccherebbe ogni modifica, così com’è avvenuto per il decreto Rilancio che avrebbe dovuto ospitare un incremento (promesso) dei fondi da assegnare alle deduzioni forfettarie in modo da stabilizzare il rimborso a 48 euro al giorno (contro i 51 richiesti), ma alla fine è stato approvato dal Senato, appunto, con un voto di fiducia. Anche a questo, certo, è possibile porre rimedio. La differenza di copertura sarebbe minima: solo 5 milioni e dunque il problema potrebbe essere risolto diversamente. «Confidiamo nelle promesse della ministra», ha chiosato il presidente di Unatras, Amedeo Genedani, aggiungendo, sibillino: «Le vie del Signore sono infinite».
Ma in sospeso – e al di fuori delle normative da approvare in Parlamento – c’è anche il nodo dei costi d’esercizio. La proposta del ministero doveva essere pronta a fine gennaio. Poi, di rinvio in rinvio, ci si era spinti a fine giugno. Nel frattempo, la gara per individuare il soggetto terzo che dovrà elaborare il calcolo da pubblicare mensilmente sul sito del ministero è stata vinta da Ernst&Young, che però starebbe incontrando difficoltà nel definire i costi dei veicoli e quelli assicurativi, per le resistenze degli interpellati a rispondere ai questionari inviati dalla società di consulenza.
LE OPERE TRA COMMISSARIO E PRIORITÀ
Ma il decreto Semplificazioni è importante per l’autotrasporto anche dal punto di vista delle infrastrutture, mai come in questi giorni nell’occhio del ciclone, con l’ingorgo quotidiano che ha paralizzato negli ultimi mesi il nodo autostradale di Genova e la direttrice adriatica (vedi articoli alle pp 10 e 14). La soluzione individuata per il nuovo assetto di Autostrade per l’Italia migliorerà certamente i rapporti tra governo e concessionaria soprattutto sull’A14, dove la mancanza di dialogo era apparsa più evidente. Sarà un caso, ma la magistratura di Avellino, pochi giorni dopo la decisione del governo su Aspi, ha accolto i progetti della concessionaria per modificare i cantieri e snellire il traffico.
Ma quanto accaduto negli ultimi mesi è frutto di una trascuratezza antica che affonda le sue radici nella difficoltà a realizzare opere infrastrutturali. «È inaccettabile», ha ricordato il presidente di Confetra, Guido Nicolini, «che per la realizzazione un’opera dal valore compreso tra 50 e 100 milioni di euro, si impieghino in media 11 anni e 6 mesi». Perciò il decreto Semplificazioni era atteso anche per snellire le procedure d’appalto e per individuare le opere prioritarie da mettere in cantiere con rapidità. Il provvedimento, infatti, ispirandosi al cosiddetto «modello Genova», introduce per le opere urgenti la figura di commissari dotati di maggiori poteri, modifica il reato di abuso di ufficio per evitare la cosiddetta «paura della firma» che trattiene i funzionari ministeriali dall’autorizzare i lavori (il danno erariale scatta solo se c’è dolo); introduce una deroga temporanea (fino a luglio 2021) per l’affidamento diretto degli appalti sotto i 150 mila euro e prevede la procedura negoziata (senza gara) per quelli fino a 5,3 milioni; permette alle stazioni appaltanti di procedere anche in presenza di contenzioso.
Ma, al di là della sburocratizzazione (sulla quale, peraltro, si è già aperto il dibattito: «Se il Governo intendeva snellire le procedure per la cantierabilità delle opere», ha osservato il vice presidente vicario di FAI-Conftrasporto, Paolo Uggè, «perché è stata inserita una norma che prevede un controllo della Corte dei Conti durante lo svolgimento del processo e non alla fine dell’opera?»), il vero nodo è l’elenco delle opere da eseguire con poteri commissariali, che avrebbero una corsia preferenziale rispetto a un secondo livello di «opere prioritarie».
GRONDA O NON GRONDA?
Il quadro di riferimento è il piano di investimenti da 200 milioni, denominato «Italia veloce», presentato dalla ministra De Micheli per realizzare 130 opere, 36 delle quali si avvarranno dei nuovi poteri commissariali previsti dal decreto. Di queste 12 sono idriche, le altre stradali (9) e ferroviarie (15). Per rimanere sulle direttrici in crisi di traffico, tra le opere da commissariare ci sono il nodo di Genova, il Terzo Valico, il raddoppio della Genova-Ventimiglia, il raddoppio della Pontremolese e, sulla linea Adriatica, il completamento del raddoppio della Pescara-Bari. Tutte infrastrutture ferroviarie. Per Liguria e direttrice Adriatica di stradale non c’è nulla (ma c’è molto nel centro Sud, compresa la nuova autostrada Roma-Latina), anche se l’Abruzzo interno è toccato dalla messa in sicurezza delle autostrade A24 e A25.
L’assenza più vistosa è quella della Gronda di Genova, che insieme alla bretella del Ponente genovese (entrambe sarebbero decisive per alleggerire il traffico del nodo), figura però fra le 130 opere prioritarie. Non è commissariabile perché il committente è privato, ma i lavori, secondo il governatore della Liguria, Giovanni Toti, potrebbero partire anche subito («C’è solo da mettere una firma e far aprire i cantieri»), dal momento che l’opera è da due anni in attesa dell’approvazione del progetto esecutivo presentato da Autostrade per l’Italia e rimasto impigliato nel groviglio dei rapporti tra concessionaria e governo. Ora che la soluzione per Aspi sembra trovata, che fine farà la Gronda?
Un altro interrogativo che si aggiunge alle tante domande alle quale gli autotrasportatori italiani attendono risposta. Il fatto è che intanto siamo ad agosto. E a metà settembre scadono i termini per la conversione del decreto, e subito dopo – il 20 e il 21 – ci sono le elezioni regionali che vedranno al voto, guarda caso, anche Liguria, Marche e Puglia, tre regioni direttamente interessate – e gravemente penalizzate – dagli ingorghi degli ultimi mesi. E il candidato alla presidenza ligure di PD e M5S, Filippo Sansa, ha già detto di essere a favore della Gronda, ma… «Si può partire anche subito con i cantieri», ha detto in un’intervista al Corriere della Sera, «nella parte condivisa del progetto, mentre sul resto serve un approfondimento».
Approfondendo, approfondendo, quanto dovranno attendere gli autotrasportatori italiani? Oppure anche per loro la semplificazione è «salvo intese»?
Dietro le parole. COSA VUOL DIRE «SALVO INTESE»?
La politica funziona spesso così: dal cilindro esce all’improvviso un’espressione e in fretta diventa una sorta di prassi. L’ultima moda al riguardo si chiama approvazione «salvo intese», vale a dire un provvedimento adottato dal Consiglio dei ministri che però nel corso del suo cammino verso il Parlamento potrebbe ancora mutare, nel senso che l’accordo politico di massima esiste, però su alcuni dettagli potrebbe essere affinato. È accaduto già per la legge di Bilancio o per il decreto Fiscale e torna a essere così per il decreto Semplificazioni. È ovvio che se si valuta la prassi sotto la lente della certezza del diritto o dell’informazione ai cittadini siamo nell’abominio. Ma d’altra parte il «salvo intese» è lo specchio dei tempi, quello di governi composti non sulla base di una coalizione preesistente alle elezioni, ma grazie a un accordo successivo, incoraggiato dal presidente della Repubblica. Finché dura.