«È necessario premettere che nel nostro Osservatorio monitoriamo le aziende sopra i 20 milioni di euro. Quindi siamo un po’ distanti dalla figura del padroncino». Fabio Quarato è pacato e preciso, come richiede il suo lavoro di studioso e ricercatore. Trentotto anni, Laureato alla Bocconi in Amministrazione, Finanza e Controllo, è docente di Economia aziendale e Sistemi di corporate governance alla Bocconi e – sempre alla Bocconi – Managing Director della Cattedra AIDAF-EY di Strategia delle aziende familiari intestata alla memoria di Alberto Falck, che elabora ogni anno l’Osservatorio AUB (AIDAF-Unicredit-Bocconi) sulle imprese a controllo familiare.
E con pacatezza e precisione Quarato elenca i dati dell’Osservatorio che riguardano le imprese di trasporto e logistica: «Sopra i 20 milioni di euro ci sono in tutto 898 imprese di trasporto e logistica, di cui sono 493 a controllo familiare e 405 non familiari. Ne viene fuori un’incidenza del 54,9%, che quindi è una percentuale un po’ più bassa rispetto alla media nazionale del 65%. Sono dieci punti sotto la media, ma è comprensibile. Bisogna ricordare quel che dicevo prima: noi monitoriamo aziende di medie e grandi dimensioni e, più scende il fatturato, più la percentuale di imprese di famiglia aumenta. Quanto ai passaggi generazionali, quelli avvenuti nel settore dei trasporti e logistica sono in linea con la media nazionale che si aggira intorno al 2%».
Parlando in generale, e non solo di trasporti, le aziende di famiglia sono più numerose in Italia o all’estero?
Qui dobbiamo sfatare un falso mito. Noi abbiamo fatto un confronto con Francia, Germania e Spagna e abbiamo scoperto che la presenza di imprese familiari è molto simile alla nostra. Quello che cambia è la presenza della famiglia negli organi di governo dell’azienda, che in Italia è molto maggiore. In Germania, per esempio, i consigli di gestione sono quasi sempre formati solo da non familiari. Penso che il falso mito di cui parlavo prima sia dovuto proprio a questo: che molte imprese estere non sembrano di famiglia, perché nei consigli di amministrazione o di sorveglianza o di gestione – a seconda del paese – non ci sono (o sono molti meno) membri della famiglia, ma manager esterni.
Torniamo in Italia. Quali sono le maggiori criticità in un passaggio generazionale?
Da quello che vediamo ce n’è una, ma basta e avanza, verrebbe da dire, perché il processo – come lo chiamiamo noi – non viene pianificato, ma continuamente rinviato e poi, quando il titolare ha un’età molto avanzata, crede di poter realizzare l’avvicendamento all’ultimo minuto.
E questo da cosa dipende?
Probabilmente perché è insito nella cultura italiana questo meccanismo accentratore, dove soprattutto i fondatori – la prima generazione – fanno molta fatica a delegare o a concedere autonomia e questo li induce, finché sono in salute, a voler comunque continuare a essere il soggetto decisore. Me c’è anche una componente anagrafica – lo abbiamo constatato nelle nostre interviste – cioè la fatica di accettare di essere entrati in una fase diversa della propria vita. Come dire: se passo il ruolo di comando a mio figlio, io che sono abituato a stare in azienda tutti i giorni, dieci ore al giorno, dal lunedì al sabato, poi che faccio? E questo un po’ spaventa.
Dunque, per il passaggio generazionale bisogna muoversi in tempo. Ma quanto in tempo? Quando bisogna cominciare?
Dall’età scolare, perché è lì che s’incomincia a trasmettere l’entusiasmo, lo spirito, l’amore per l’azienda e i ragazzi cominciano a capire se l’azienda è qualcosa che gli piace o non gli piace e quindi a indirizzare i propri studi in funzione di qualcosa che potrebbe essere utile un domani per entrare nell’impresa. È l’avvicinamento all’azienda, la prima di quattro fasi illustrate in una «guida per i passaggi generazionali» – realizzata dalla Cattedra AIDAF-EY in collaborazione con Assolombarda e reperibile anche su Internet – nella quale non si è coinvolti operativamente in nessuna maniera, ma si comincia a conoscere l’azienda, i suoi dipendenti, il prodotto, quindi ad assimilare quel know-how intrinseco di cui la famiglia è portatrice.
E le altre fasi?
La seconda è la fase della formazione, dove è chiaro che il giovane potrà assecondare le proprie tendenze, ma dovrà avere ben presente che se vorrà entrare in azienda avrà bisogno di un certo tipo di formazione. Per questo molte imprese si stanno dotando di un patto di famiglia che stabilisca prima e con chiarezza le regole di ingresso. Per esempio, se per entrare in azienda ci vuole una laurea, una certa conoscenza delle lingue e un periodo di lavoro fuori (o all’estero), il giovane fin da quando comincia a studiare sa quale percorso seguire. Se non avrà conseguito la laurea, non potrà rivendicare di entrare in azienda con la scusa che nessuno glielo aveva detto.
E quando entra in azienda?
È la terza fase, di formazione lavorativa, in cui ci sarà il primo trasferimento di responsabilità al figlio in quella che noi chiamiamo «convivenza generazionale». Il livello d’ingresso dipenderà molto proprio dagli studi e dall’esperienza maturata all’esterno. Evidentemente il papà mantiene ancora un potere superiore, ma si apre un periodo di trasferimento di competenze, segnato da una fase di apprendimento sia da parte della nuova generazione che della precedente, con quest’ultima che comincerà un po’ alla volta a delegare e ad affidare responsabilità a quella nuova. Alla fine di questa fase si dovrebbe arrivare al vero e proprio «passaggio del testimone».
Quindi questo processo quanto dura?
Da quello che ho spiegato si capisce che può durare anche venti, trent’anni. Dipende anche da come datiamo la partenza: se cominciamo dalle scuole superiori per arrivare al momento in cui il figlio subentra come amministratore delegato al posto del papà, di anni ce ne vorranno certamente tanti.
Voi studiate le aziende con fatturati elevati, ma certamente avrete – se non i numeri – almeno il polso delle imprese più piccole. Cosa succede nelle PMI?
La differenza più forte è che la PMI è ancora molto concentrata sul passaggio della gestione all’interno alla famiglia, quindi il meccanismo che ho illustrato per le piccole e medie imprese è molto più accentuato e richiede un’attenzione ancora maggiore. Nelle aziende di grandi dimensioni, invece, sta prendendo sempre più piede, anche in Italia, il modello francese o tedesco, dove la famiglia fa un passo indietro, al massimo entra nel consiglio d’amministrazione, e lascia la gestione in mano a manager esterni. In una PMI, invece, è quasi scontato che la famiglia resti al comando operativo e dunque al titolare succederà sicuramente un familiare. Il percorso è sempre lo stesso, ma magari ci sono anche cugini e nipoti che vogliono entrare in azienda e alla fine prenderne la leadership, e dunque ci vorrà molta attenzione alle dinamiche interne alla famiglia, soprattutto se questa è molto numerosa.
Questo articolo fa parte del numero di novembre 2023 di Uomini e Trasporti: uno speciale monografico di 64 pagine interamente dedicato al tema del passaggio generazionale nelle aziende di autotrasporto.
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