Alla fine ha prevalso il buon senso: i lavori di manutenzione straordinaria del traforo del Monte Bianco cominceranno solo quando sarà ripristinato completamente il transito sul Fréjus, interrotto a causa della frana che il 27 agosto ha investito la direttrice francese della val Moriana, travolgendo l’autostrada A43 per Lione e la ferrovia parallela. Per maggior sicurezza, i cantieri che avrebbero dovuto aprire il 4 settembre e durare fino al 18 dicembre, riapriranno invece fra un anno – come chiedeva l’Italia – nel settembre del 2024, salvo brevi chiusure per lavori non rinviabili (vedi box p. 19).
Inizialmente Parigi non intendeva rinviare i lavori di oltre una settimana, ma la situazione al Fréjus si è presto rivelata più grave dell’ottimismo francese: il tunnel autostradale ha riaperto a metà settembre per i veicoli pesanti, ma con una sola corsia sulla carreggiata investita dalla frana, sulla quale pendono ancora almeno 3 mila metri cubi di roccia che vanno stabilizzati o fatti cadere. Ancora più lungo il ripristino della ferrovia, previsto per metà novembre.
A far prevalere il buon senso anche da parte francese, alla luce di tali rilevazioni, è stato il timore di compromettere un interscambio con l’Italia dell’ordine di quasi 100 miliardi di euro, messi a rischio dalla chiusura contemporanea di Fréjus e Monte Bianco, i due trafori dove transita la gran parte delle nostre e delle loro merci. Ma, mentre si chiudeva quell’accordo, si bloccavano i trafori del Gottardo – ferroviario e stradale – per un grave deragliamento sul primo e una crepa sul soffitto del secondo.
Dunque, l’intesa tra Italia e Francia è solo un momentaneo pannicello caldo sullo scenario drammatico per la nostra economia che si sta disegnando sui confini del paese. La vicenda ha infatti rivelato drammaticamente la fragilità dell’arco alpino, dove si accavallano lavori di adeguamento, frane, incidenti, cantieri di manutenzione, divieti ambientali che stanno trasformando le Alpi in un filtro sempre più difficile da superare per i nostri prodotti.
Tre aree di transito
Perché ogni anno attraversano (o tentano di attraversare) la barriera alpina 160 milioni di tonnellate di merci (il 60% del nostro export totale che ammonta a 266 milioni di tonnellate), dirette soprattutto in Germania, Francia, ma anche verso i porti di Olanda e Belgio e, comunque, verso tutti gli altri paesi europei. Il 66% di queste merci viaggia su strada e quasi tutto il resto su ferrovia attraversando le Alpi, soprattutto in sette aree dove (a dati 2019 del ministero degli Affari esteri, su italiaindati.com) transitano su strada più di 100 milioni di tonnellate di prodotti. In ordine da Ovest a Est sono: Ventimiglia, Fréjus, Monte Bianco (solo stradale), Sempione, Gottardo, Brennero, Tarvisio. Se si escludono il primo e l’ultimo (rispettivamente 23 e 21 milioni di tonnellate in transito) che non presentano particolari problematiche, ma coprono direttrici lontane dai ricchi mercati del Centro Europa, il grosso dell’export si può dividere in tre aree: la Fréjus-Monte Bianco (25 milioni di tonnellate, di cui 20 su strada) diretta verso il Nord della Francia e i porti del Northern Range; l’attraversamento svizzero Gottardo-Sempione (più di 45 milioni di tonnellate, di cui 10 su strada) a metà fra le altre due direttrici; il Brennero (quasi 54 milioni di tonnellate, di cui 40 milioni su strada) che segue la direttrice del corridoio Mediterraneo-Scandinavo.
Sono state proprio queste tre aree di transito a entrare contemporaneamente in crisi negli ultimi giorni di agosto: la frana del Fréjus in concomitanza con la partenza dei lavori al Monte Bianco, la chiusura del traforo stradale del Gottardo (riaperto il 15 settembre) e quella che durerà mesi per un incidente in quello ferroviario; la costante quanto illegittima limitazione dell’attraversamento dell’Austria con i camion, imposta – alla faccia delle norme europee – dalle autorità di Vienna e di Innsbruck. Una tempesta perfetta (ma di terra) che ha fatto temere (e continua a farlo in prospettiva) per il nostro export. Perché, anche se il valore delle merci non coincide con il loro peso, i milioni di euro che viaggiano ogni anno attraverso le Alpi – su strada o su ferro – sono davvero tanti e qualunque ostacolo su queste rotte costituisce un danno pesante per i nostri scambi commerciali.
Il danno economico
Difficile calcolarne con esattezza l’entità, anche perché non ci sono da anni studi organici che offrano statistiche omogenee sui transiti dell’intero arco montano. Con la crisi Fréjus-Monte Bianco si sono lette le stime più disparate: un danno di 11 miliardi, ma per l’insieme di logistica e turismo; un calo del PIL della sola Val d’Aosta del 9,8% e del 5,4% per l’intero Nord Ovest (fonti che citano l’Osservatorio territoriale delle infrastrutture del Piemonte, organismo creato da Confindustria, Unioncamere e Regione). Ma le percentuali non sono convincenti, ammontando la prima a meno di mezzo miliardo e la seconda addirittura a quasi 75. Per tornare con i piedi sulla terra basterà ricordare l’incendio del traforo del Monte Bianco nel 1999, rimasto poi chiuso per tre anni, con un danno economico – calcolato dal nostro governo –in 3 miliardi di euro.
Quanto al Brennero, non si può parlare di un blocco continuo, ma lo stop and go delle limitazioni (chiusure notturne, contingentamenti, divieti settoriali, giornate proibite) incidono sui tempi di consegna e, dunque, finiscono per privilegiare merci che arrivano più velocemente da altri Paesi. Anche in questo caso, dunque, l’entità del danno è quantificabile solo con stime: uno studio di Conftrasporto del 2019, diffuso al Forum di Cernobbio, ha valutato che ogni ora di ritardo al Brennero costa all’economia italiana più di 370 milioni l’anno, ma più o meno la stessa cifra (360 milioni) è stata indicata, in occasione della crisi di fine agosto, da Antonello Fontanili, direttore di Uniontrasporti, società consortile delle Camere di commercio, come danno complessivo (e non orario).
Nessuna stima invece per l’incidente del 10 agosto scorso sulla linea del traforo del Gottardo che ha bloccato il transito ferroviario di 15 milioni di tonnellate di merci attraverso la Svizzera. Il fermo è durato solo 15 giorni, ma il traffico merci è stato ripristinato solo su una delle due canne e i lavori di risistemazione per tornare ai ritmi di traffico precedenti l’incidente dureranno mesi.
L’export attraverso i valichi
Tutta questa sequela di incidenti, crolli, limitazioni vanno a colpire un export verso i paesi europei – da Ovest a Est, dalla Spagna alla Russia – che in valore nel 2021 è arrivato a 272 miliardi di euro, pari al 52,8% del totale delle nostre esportazioni (516 milioni). Il grosso sono le merci destinate alla Germania (67 milioni) e alla Francia (53 milioni), dove i transiti alpini hanno un ruolo rilevante, anche se non esclusivo (ma francamente il trasporto marittimo e quello aereo non sembrano avere quote rilevanti). Se aggiungiamo Svizzera (27 milioni) e Austria (11 milioni), destinazioni verso le quali i valichi non hanno praticamente concorrenza, il valore totale delle merci maggiormente a rischio è di 158 milioni di euro. Che salgono a 190 mila se aggiungiamo anche una serie di destinazioni più lontane ma che non hanno alternative sostanziali al trasporto terrestre come i Paesi dell’Est europeo, dalla Polonia alla Russia.
Meno rischi corrono le merci dirette a destinazioni europee più lontane, ma raggiungibili anche via mare (come Spagna, Regno Unito, Olanda, Paesi Bassi), per le quali solo una quota degli 82 milioni di valore – non distinguibile, né calcolabile – delle nostre esportazioni verso questi Paesi ha bisogno del transito alpino. Ma anche non considerando quest’ultimo gruppo – solo per avere un’idea approssimativa – 190 milioni di euro divisi per i 250 giorni lavorativi convenzionalmente calcolati su un anno, significa che se tutti i valichi chiudessero per un solo giorno, la perdita in valore sarebbe di 760 mila euro. Una settimana di chiusura ed ecco che rischierebbero di sparire 5 milioni e 320 mila euro di esportazioni.
L’agroalimentare spagnolo
Naturalmente si tratta di calcoli sommari, utili solo a valutare le dimensioni del problema in un insieme che probabilmente in questi termini (ci auguriamo) non si verificherà mai. Più concreto, anche se parziale, il danno relativo alle tipologie di prodotti esportati. Per esempio, l’agroalimentare che sostanzialmente non ha alternative al trasporto su gomma, trovando poco spazio su quello ferroviario, specialmente nel settore dell’ortofrutta, dove la tempestività della consegna è essenziale.
Appena esplosa la crisi di fine agosto, Coldiretti si è affrettata a ricordare che il 63% delle esportazioni agroalimentari italiane interessano i Paesi dell’Unione europea, che questi vengono raggiunti soprattutto attraverso i valichi alpini e che l’88% delle merci in Italia viaggia su gomma. Blocchi e rallentamenti alla frontiera, ha sostenuto l’organizzazione, «mettono a rischio il record dell’export agroalimentare Made in Italy che ha raggiunto i 60,7 miliardi nel 2022 e che è cresciuto dell’8% che nei primi cinque mesi di quest’anno», favorendo la concorrenza soprattutto dalla Spagna. «Occorre intervenire nell’immediato con accordi che consentano di ridurre al minimo i disagi, ma occorre anche investire sulla logistica in termini infrastrutturali», ha protestato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, consapevole – come tutti gli operatori del settore – del rischio che un Fréjus possa ripetersi anche sulle altre direttrici di valico.
Ma cos si sta facendo per evitare questo rischio? Vediamo la situazione e le prospettive per i valichi più a rischio.
Il Fréjus verso la doppia canna
Al valico si transita attraverso due trafori, uno stradale e uno ferroviario, percorsi ogni anno rispettivamente da 11 milioni e 3 milioni di tonnellate di merci. La frana del 27 agosto ha interrotto entrambi, dirottando il traffico stradale pesante verso il Monte Bianco, con conseguente filtraggio che ha provocato attese fino a tre ore, mentre è stato sospeso il trasporto combinato tra Orbassano e Chambery. Per il traforo stradale è in avanzato corso di realizzazione la seconda canna che dovrebbe entrare in funzione nel giugno 2024. In attesa della TAV Torino-Lione, la ferrovia del Fréjus è l’unico collegamento ferroviario tra Italia e Francia se si esclude quello di Ventimiglia, poco utilizzato per le merci.
Il raddoppio del Monte Bianco
Circa 4.600 camion attraversano ogni giorno il traforo del Monte Bianco (transito soltanto stradale) che assorbe il 5,4% del traffico pesante alle frontiere alpine. Secondo le previsioni dei tecnici, il 90% di questo traffico si sarebbe dovuto spostare sul Fréjus, per consentire una lunga serie di lavori (72 mesi in tutto spalmati fino al 2040), ma la frana del 27 agosto ha fatto saltare i programmi che prevedevano, nei prossimi anni, mesi interi di chiusura della circolazione per altri lavori di ristrutturazione.
Nel corso dei colloqui intergovernativi sulla crisi del Fréjus, l’Italia ha rilanciato la proposta della seconda canna del traforo, alla quale Parigi si è sempre detta contraria, sotto la pressione delle comunità locali, fin da quando l’ipotesi era stata messa sul tavolo, dopo il rogo del 1999 che provocò la morte di 39 persone. Il secondo tunnel potrebbe essere realizzato in cinque anni, con altri 18 di interruzioni annuali di quattro mesi per la messa in sicurezza.
Il Brennero interdetto
Con quasi 40 milioni di tonnellate, il valico del Brennero è la principale via d’uscita delle merci italiane verso i ricchi mercati nel cuore dell’Europa. Due milioni e mezzo di camion l’anno trasportano il 37,5% delle tonnellate di merci esportate dal nostro Paese. Ma questo flusso viene costantemente rallentato da limitazioni decise unilateralmente dall’Austria o dal land del Tirolo, con blocchi notturni, pedaggi più elevati, divieti per settore merceologico, contingentamento degli attraversamenti, arrecando danno all’economia italiana.
Le iniziative austriache sono state duramente contestate da tutte le associazioni dell’autotrasporto e il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, dopo aver investito più volte della questione la Commissione europea (che ha tentato una blanda mediazione), ha annunciato a giugno che formalizzerà presso la Corte di Giustizia europea la richiesta di procedura d’infrazione nei confronti di Vienna. La Commissaria europea ai trasporti, Adina Valean, si è detta «delusa» dall’atteggiamento di Vienna e la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha lanciato un monito, offrendo «un ultimo colloquio» per cercare un compromesso. Per tutta risposta, in piena crisi del Fréjus, Vienna ha comunicato un nuovo calendario di dosaggio dei transiti per il 2024 (24 giorni, quelli elencati nella tabella a p.20) e un sistema di gestione digitale del traffico coordinato con Baviera e Alto Adige per adottare il contingentamento nei periodi di maggior traffico.
Quanto ai transiti ferroviari, in attesa del tunnel di base, la cui apertura è prevista per il 2032, la linea attuale, sulla quale transitano 14 milioni di tonnellate di merci, è rimasta chiusa per due settimane in pieno agosto, aggravando la situazione.
Le chiusure del Gottardo
Una legge approvata nel 1994 dal Parlamento svizzero prevede che i camion in transito nel Paese non debbano essere più di 650 mila, ma l’obiettivo non è stato mai raggiunto: nel 2022 soltanto sull’autostrada del Gottardo sono passati 880 mila veicoli pesanti con un carico di merci in uscita che supera gli 8 milioni di tonnellate. Numeri che sembravano dover aumentare quest’anno, non solo per le difficoltà alla frontiera francese e per le limitazioni austriache, ma anche perché la ferrovia del traforo svizzero, dove transitano più di 15 milioni di tonnellate di merci è entrata in crisi per un incidente che il 10 agosto ha rischiato di provocare una tragedia: un vagone del merci Chiasso-Mannheim è uscito dai binari a uno scambio in galleria, portandosi appresso altri sedici vagoni per otto chilometri, prima che il capotreno si accorgesse del disastro. Pesantissimi i danni: divelte 20 mila traversine e traffico merci interrotto per 15 giorni, prima di riprendere su una sola galleria. Ci vorranno mesi prima che la circolazione possa tornare ai ritmi di prima e le merci che viaggiavano su treno finiranno per intasare il già intasato traffico stradale di mezzi pesanti ai pochi valichi dove si transita.
Come se non bastasse esattamente un mese dopo, il 10 settembre, una crepa di 25 metri nel soffitto del traforo autostradale, a 700 metri dall’imbocco settentrionale, ha costretto a chiudere il tunnel per una settimana e a riaprirlo con limite di velocità a 60 Kmh, deviando il transito sul colle del San Bernardino, dove il traffico è peraltro rallentato da lavori di manutenzione.
Per di più sono stati sospesi i lavori per la costruzione della seconda canna del tunnel stradale perché proprio quella potrebbe essere stata la causa della crepa nel traforo che ne ha fatto decidere la chiusura. Lavori per il raddoppio della galleria autostradale che, iniziati nel 2020, sarebbero dovuti terminare nel 2029.
Conclusione
Con il Fréjus a traffico ridotto, il Monte Bianco e il Gottardo sovraccarichi, il Brennero contingentato, le nostre merci hanno sempre maggiore difficoltà a raggiunge i loro mercati. E il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha avuto buon gioco, subito dopo l’esplosione della crisi del Fréjus, a mettere il dito nella piaga con la sua consueta franchezza: è un problema annunciato, ha detto; dov’erano quelli che se ne dovevano occupare? Sugli attraversamenti sull’arco alpino «sta succedendo quello che è un classico male italiano. Dopo che dal 2022 ad oggi, e per ogni mese, abbiamo denunciato il problema Monte Bianco che avrebbe avuto ripercussioni non solo per la Val D’Aosta ma per tutto il Nord, arriva la frana e improvvisamente ci svegliamo e diciamo: cosa succede al Monte Bianco? Ma dov’erano tutti quelli che se ne dovevano occupare in questi mesi? Come sempre, serve l’evento catastrofico per accorgersi che avevamo un problema di infrastrutture».