Il carburante arrivava soprattutto da Slovenia e Croazia e poi veniva fatto passare attraverso le mani di una fitta rete di finte società (41 in tutto) che, emettendo false fatture utili a non pagare l’Iva, consentiva a chi poi vendeva il prodotto sul mercato di poter praticare prezzi più contenuti rispetto alla media del mercato. È il meccanismo che la Guardia di Finanza di Bologna, Napoli e Roma, coordinata dalla Procura europea, ha scoperto tramite la «Fuel family», un’operazione su scala comunitaria che in Italia ha condotto agli arresti domiciliari e all’adozione di altre misure cautelari nei confronti di otto persone e fatto emergere una frode fiscale di 300 milioni di euro. E una serie di beni per un valore analogo sono stati posti sotto sequestro a 59 persone e a 13 società.
Il carburante acquistato all’estero veniva smistato verso un magazzino fiscale di Magenta (Milano) e da qui veniva venduto a prezzi interessanti ai distributori stradali di varie parti di Italia, anche se la società che fungeva da vertice dell’organizzazione aveva sede a Rovigo e i suoi membri principali, sparsi sia in Italia che all’estero, erano tutti legati da rapporti di parentela (che giustificano il nome dato all’operazione).
A consentire il successo commerciale alla frode, quindi, era proprio la creazione di società fittizie, localizzate per lo più tra Campania e Lombardia, che sono riuscite nel tempo a emettere fatture per operazioni inesistenti per circa un miliardo di euro, in modo tale che arrivare a evadere più di 260 milioni di euro di Iva.
In più, una parte dei proventi ottenuti con questo schema illegale venivano poi riciclati verso conti correnti esteri, in particolare in Ungheria e Romania, in modo tale da poterli poi prelevare e consegnare ai vertici dell’organizzazione. In questo modo sono state trovate tracce di movimenti per complessivi 35 milioni di euro.