Il trasporto – ma in realtà un po’ tutta la logistica – è una di quelle attività che, malgrado imprescindibile, la si percepisce fino in fondo soltanto se viene a mancare. E chi lavora nel trasporto alla fine introietta questa logica dell’assenza e la utilizza per guardare le cose in modo più chiaro. Volete un esempio? Prendete il pacchetto mobilità, l’insieme delle tre distinte normative comunitarie (due regolamenti su accesso alla professione, tempi di guida e uso del tachigrafo e una direttiva sul distacco) approvate l’8 luglio scorso ed entrate almeno in parte in vigore già dal 20 agosto. Se si chiede a Domenico De Rosa, amministratore delegato di un gruppo come SMET, presente nel trasporto da circa settant’anni, di valutare la funzione essenziale di queste disposizioni lui non ha dubbi: «Il pacchetto mobilità serve a far capire quanto il valore dell’intermodalità sia essenziale per l’Europa. In pratica – sottolinea (appunto) – va letto in contrasto, cogliendo cioè le cose che non dice». Proviamo a spiegare in che senso?. «È evidente – risponde De Rosa – che il combinato disposto del periodo di raffreddamento nel paese di origine e dell’obbligo di trascorrere in albergo la pausa lunga o anche altre norme simili servono essenzialmente a disincentivare il trasporto su gomma. E, di conseguenza, a stabilire il primato dell’intermodalità: è questo che vuole l’Europa».
Un freno per le flotte dell’Est
Poi è altrettanto vero che questo disincentivo, così com’è concepito, aiuta a disinnescare alcune dinamiche che hanno consentito alle flotte dell’Est di trovare spazio crescente nel mercato. E «dell’armonizzazione – aggiunge l’ad di SMET – le aziende strutturate italiane non possono che essere soddisfatte. Perché per troppo tempo abbiamo visto una crescita unilaterale di paesi come Polonia, Ungheria, Lituania, che hanno fatto leva sulla competitività derivante dal minor costo della manodopera. Oggi con il pacchetto mobilità inizia un percorso che tende, sia per i veicoli pesanti, ma in un secondo momento anche per quelli leggeri, a rendere più complesso approfittare di localizzare flotte in aree dell’Europa dove il costo della manodopera è molto più basso rispetto all’Europa occidentale». E lo stesso meccanismo funzionerà anche per chi dall’Ovest ha cercato di speculare su queste dinamiche, perché – puntualizza De Rosa – «se in un trasporto internazionale vado a localizzare la mia flotta in modo non naturale, vale a dire non sull’asse del mio traffico, a quel punto diventano ingestibili i ritorni nel paese di stabilimento dell’azienda».
L’intermodalità? Una modalità virus-free
La disomogeneità del mercato europeo è un problema. Anzi, lo è da tempo e, non a caso, il pacchetto mobilità ha iniziato la sua procedura di approvazione circa tre anni fa. Ma adesso, in questo difficile frangente, la principale criticità su scala non solo europea è l’emergenza sanitaria. Eppure, gli obiettivi di questa normativa, fissati allora, restano in qualche modo validi. De Rosa non ha dubbi. A fugarli, rispetto al primato dell’intermodalità, è la scoperta che il mix di gomma con mare e treno dispone di potenti anticorpi: «Il problema del virus è il contagio. E quindi la mobilità delle persone è il veicolo che lo aiuta a circolare. Ora è evidente che siccome le autostrade del mare fanno diminuire in maniera quasi totale la circolazione degli autisti, rappresentano una sorta di mobilità virus-free». Affermazione suffragabile con numeri concreti: «Attualmente su una nave si possono imbarcare 250 camion con l’impiego esclusivo del personale di bordo: dieci persone di equipaggio, quindi, fanno circolare tutti quei mezzi e a gestire molta capacità. Senza considerare che anche in questo momento segnato da autoisolamenti e quarantene, far spostare soltanto il trailer piuttosto che l’autista, equivale a evitare di bloccare per troppo tempo questo professionista del trasporto. E tutto questo è stato e sarà ancora un vantaggio». Prova ne sia che i traffici delle autostrade del mare, a partire da quelli sul porto di Salerno, sono ritornati già su livelli pre-Covid, così come quelli ferroviari hanno fatto registrare incrementi significativi.
Un discorso che vale oggi, ma che varrà a maggior ragione domani quando, già dal prossimo mese, entreranno in servizio sulla linea Livorno-Savona-Barcellona-Valencia le prime due navi Grimaldi della classe GG5G in grado di imbarcare 500 semirimorchi, perché a quel punto – osserva De Rosa – «con una maggiore capacità e servizi migliori, sarà sempre di più favorita la sostituzione della modalità tutto-strada».
Metti un Nikola Tre sul primo e sull’ultimo miglio
Ma non è tutto, perché nell’organizzazione di SMET, basata su un mix articolato di varie modalità («attualmente il mare è utilizzato per il 50% degli spostamenti, mentre strada e ferrovia si dividono equamente il rimanente 50%»), la gomma andrà sempre di più a contenere le sue emissioni. E siccome sarà chiamata a gestire essenzialmente il primo e l’ultimo miglio, non avrà problemi a lasciare spazio ai camion elettrici. «La ridotta autonomia di questi veicoli – argomenta l’amministratore di SMET – per noi non è un limite, proprio perché è confacente al nostro modello industriale». Non è un caso, allora, che proprio il gruppo guidato da De Rosa sia in prima fila tra le aziende candidate a testare il Nikola Tre, vale a dire i veicoli elettrici (prima a batterie e poi a celle combustile) che la start up statunitense, in joint venture con Iveco, sta realizzando per il mercato europeo a Ulm, in Germania, in quegli stabilimenti dove già in passato venivano realizzati gli Stralis.
Come spendere il recovery fund? Chiedetelo alle imprese
L’intermodalità è comunque una cura mirata per virulenze specifiche. La pandemia, però, ha creato problematiche più ampie sull’intera Europa e quindi i vertici comunitari hanno pensato di creare un pacchetto di aiuti, anche detto «recovery fund», per stimolare l’economia continentale a ripartire. La domanda che tutti si pongono al riguardo è: come vanno spesi questi aiuti? Qui il numero uno di SMET chiama in causa una sorta di principio di sussidiarietà, già utilizzato in Europa, secondo cui una qualunque evenienza diventa tanto più intellegibile e risolvibile, quanto più chi la gestisce è vicino all’evenienza stessa. Tradotto in termini operativi – chiarisce – «l’Italia dovrebbe domandare alle categorie, alle associazioni di imprenditori, agli operatori che vivono il mercato, a quali progetti dare priorità. Perché va benissimo, come si sente dire, che le infrastrutture sono al primo posto. Ma dopo quello che si è consumato sulle imprese di autotrasporto in Italia tra marzo e maggio, è necessario anche predisporre pacchetti di aiuto alle imprese, altrimenti si rischia che a utilizzare quelle infrastrutture saranno soltanto operatori stranieri, che invece hanno beneficiato velocemente di aiuti e sostegni pubblici». Scendendo dal principio alla pratica, De Rosa suggerisce contributi in termini di competitività e di sostegno al lavoro o, più ancora, crediti di imposta sui costi della manodopera. L’importante – puntualizza – è che «qualsiasi forma di incentivo non sia vanificata da meccanismi di prenotabilità o da click day, ma siano stabili e in grado di consentire una programmazione: se mi dici che acquistando un veicolo ottengo un contributo, poi non puoi poi far passare il tutto attraverso quella sorta di inganno, secondo cui se non clicco come primo non sono beneficiato». Né è possibile, com’è avvenuto rispetto al decreto Agosto, che ha riconosciuto una decontribuzione del costo del lavoro del 30% per le aziende del Sud, ma – aggiunge il manager salernitano scuotendo la testa – «come si applica questa regola non lo sa nessuno. E un tale ritardo, in un momento di particolare volatilità, è doppiamente penalizzante». Infine, si pone una domanda dalla logica facile facile: «Ma se a soffrire sono state tutte le aziende, di qualunque territorio, perché il beneficio è stato concesso soltanto a quelle del Sud?». Se qualcuno volesse fornire una risposta…