Conoscevo bene Silvio Faggi, soprattutto in veste di fonte attendibile, in grado di evidenziare e discernere come pochi le ragioni di parte. Anche per questo ho trovato sincero, acuto, a volte persino toccante il ritratto che dello storico segretario della Fiap, scomparso prematuramente poco più di un anno fa, delinea Umberto Cutolo in «Silvio Faggi. L’amico degli autotrasportatori», edito dalla stessa Fiap lo scorso dicembre. Dalle pagine emergono i connotati dell’uomo e del rappresentante di categoria, in alcuni casi magicamente intrecciati, come se la vicenda personale respirasse e si nutrisse con l’avanzare della storia. In questo modo Faggi diventa una sorta di Forrest Gump, dotato – al contrario del protagonista del film – di acume politico lungimirante, di competenze tecniche approfondite, di capacità relazionale immediata e spesso lubrificata a tavola a colpi di tagliatelle e sangiovese. Come Forrest, Faggi si trova a essere testimone di una serie di episodi storici per il settore, osservandoli da un punto di vista originale. Ecco due esempi.
Quando nacquero le tariffe a forcella
Il primo risale al 18 novembre 1982. Sono trascorsi otto anni dall’approvazione della legge 298 del 1974, quella che forniva ai fragili trasportatori dell’epoca una tutela sulla carta straordinaria: le tariffe obbligatorie «a forcella». È un’innovazione che la committenza non gradisce e contrasta in tutti i modi. E questo giustifica la lunga gestazione che precedette la loro nascita. Fatto sta che quel giorno a Cesena arriva il ministro dei Trasporti dell’epoca, il socialista Vincenzo Balzamo, invitato a partecipare a un convegno. Faggi ha appena 27 anni e lavora da poco nella Fita di Forlì, eppure spetta a lui introdurre il ministro. Appena gli passa la parola, Balzamo annuncia di aver appena firmato il decreto che consente alle tariffe a forcella di entrare in vigore. È un momento di svolta atteso e rincorso per anni e quando si concretizza Faggi è lì, a un passo, a osservarlo.
La scritta «Unatras» al posto di cinque sigle
Il secondo ci porta dieci anni avanti, al 18 ottobre 1992. Qui la storicità dell’evento la si coglie se si premette che ogni settore ha la rappresentanza che merita. E un autotrasporto animato dalla presenza sul mercato di 130 mila aziende, il più delle volte l’un contro l’altra agguerrita, è sempre stato sostenuto da una cornice associativa frastagliata e duellante. Due debolezze in un settore solo. E se per arginare la prima qualcuno predicava una saggia aggregazione, per contenere la seconda, Faggi consigliava dialogo e unificazione. Di tentativi in tal senso se ne fecero tanti, quasi tutti affondati nel mare degli interessi di parte. Ecco perché lo spettacolo che va in scena in quell’ottobre del ’92 al palazzetto dello sport di Cesena è letteralmente emozionante. Cinque associazioni dell’autotrasporto (Fita-CNA, Fai, Fiap, Sna Casa e Confartigianato Trasporti) che insieme pesano per l’85% del mercato, danno vita a un raggruppamento unitario. E Faggi di quello spettacolo è una sorta di scenografo innamorato del coup de théâtre: fa realizzare uno striscione su cui vengono riportate le sigle delle cinque associazioni e, al momento dello storico annuncio, lo lascia cadere muovendo apposite cordicelle, svelando così ai presenti la scritta «Unatras».
Il giorno che disse «E basta!…» alla ministra
Ma Faggi entra anche in una sezione provinciale dell’Albo degli autotrasportatori nel 1978, l’anno stesso della sua istituzione, e percorre al suo interno un lungo tragitto fino alla poltrona più alta raggiungibile da un rappresentante dell’autotrasporto, quella di vicepresidente del Comitato Centrale. Ruolo che il segretario della Fiap interpreta in modo molto istituzionale, con un atteggiamento che lascia trapelare il rispetto che nutre per quell’organo di rappresentanza. Atteggiamento che ha messo da parte – si narra nel volume – soltanto una volta, quando il 19 novembre 2019, al primo appuntamento con la neo ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, Faggi, dopo aver ascoltato il solito copione che interpreta stancamente ogni neo ministro (che il settore è strategico quanto complesso e che quindi necessita di tempi lunghi per essere compreso), sbottò in un sonoro «E basta!…», reso ancor più spettacolare dalle carte che fece volare mentre imprecava e usciva dalla stanza.
Meno norme, più formazione
È il sintomo di una stanchezza, ma è anche un segno dei tempi, divenuti sempre più complicati per la rappresentanza. Dopo aver combattuto tanto per ottenere tutele normative di ogni tipo e dopo aver ispirato, insieme al fedele e sagace Massimo Bagnoli, presidente della stessa Fiap, l’attuale legge sui pallet, quella sull’indennizzo dei tempi di attesa e quella per caricare di un interesse dignitoso la fattura pagata oltre i 60 giorni, Faggi fa un bilancio e getta la spugna. Gli appare evidente cioè che quel continuo trattare per costruire un sostegno di norme per le imprese di autotrasporto, alla fine non paga, perché quelle stesse imprese sono le prime a non rispettarlo. E allora comprende che è meglio puntare per un verso sulla pulizia del settore – e per questo si impegna da vicepresidente per attuare sul portale dell’Albo la sezione in cui i committenti possono controllare la regolarità delle imprese – e, dall’altra, sulla crescita imprenditoriale di chi opera nel trasporto merci. Intuisce cioè che serve prossimità, suggerimenti e tanta formazione. Per la Fiap, come per altre realtà associative, diventa una missione, ma anche un’ancora di salvezza economica, resa necessaria dalla retromarcia ideologica della politica che, così come aveva contratto i tesseramenti partitici, allo stesso modo aveva tenuto lontano le imprese dall’aderire ad associazioni di categoria. Così, la formazione diventa uno dei servizi utilizzati per legare le aziende alle associazioni, ma anche uno degli strumenti finanziari che le tiene in vita. Faggi coglie questo trapasso e vede un degno delfino in Alessandro Peron, un manager prestato all’autotrasporto e animato da tanta voglia di connotare anche un’associazione di categoria con un’organizzazione imprenditoriale. Di fare al proprio interno, cioè, quel passo che all’esterno si esortava tanti trasportatori a compiere.
Risalire con onestà e umorismo
Un momento di trapasso o, per meglio dire, l’ennesimo sforzo di un uomo che, venuto giù dalla montagna romagnola, aveva spesso dovuto risalire la china: quando venne allontanato (per la sua fede socialista) dalla Fita; quando venne ospitato in una Fiap che aveva perso pezzi a livello territoriale; quando vide la frattura in due della sua stessa associazione. E in questi sforzi traeva energia dalla passione, ma anche dall’onestà con cui si relazionava agli altri. Sì perché, Silvio Faggi, per mutuare un’espressione romanesca del segretario di Assotir, Claudio Donati, «non era uno che andava con la volpe sotto l’ascella». Al contrario era uno che a una volpe, che incrociava spesso uscendo dalla trattoria del suo paese natale (Àlfero), dava persino da mangiare dalle sue mani. Perché Faggi aveva imparato a trarre equilibrio dalla natura, sapeva curare sia animali a rischio estinzione (le api, oltre alle volpi), sia piante bisognose di innesti. Ma soprattutto sapeva sempre trovare un modo ironico per fronteggiare anche le difficoltà. L’ultima volta che l’ho sentito, quando contrastava a fatica quel «problema» – come chiamava la malattia – con cui dovette convivere gli ultimi anni della sua vita, conclusi la telefonata esortandolo a non mollare. Mi rispose: «Ho dato tanti soldi all’Inps e non vorrei lasciarglieli tutti».
Mi strappò un sorriso che, seppure venato da qualche amarezza, dura ancora oggi.