«Mamma?».
«Dimmi Alberto», rispondo nel sonno (o almeno credo).
«Dov’è papà?».
«Sta partendo per andare a lavorare», rispondo in modalità automatica. Quindi, mi giro su un fianco e mi illudo di poter riprendere da dove ero rimasta. Ascolto il mio respiro farsi sempre più lento e il cervello abbandonarsi ai sogni… Tun tun tun tun tun: sono i piedini di mio figlio. È incredibile come un numero 22 riesca a pesare sul pavimento come un 43.
«Voglio vedere», mi urla dal bagno.
«No, amore. È tardi, dormi!».
Silenzio. Stato di allerta numero uno: sta escogitando qualcosa. Il sonno si avvicina ancora. Rumore dello sgabello che striscia sul pavimento: stato di allerta massimo. Scatto felino in direzione del bagno.
«Fermo, ti prendo in braccio io». Ha vinto lui e con lui la sua voglia di vedere il papà andare via con il camion.
«Guarda mamma, che bello il camion del papà».
Osservo questo nanetto biondo, sveglio e pimpante. I suoi occhi attraversano il buio in cerca dei fari accesi in fondo al piazzale dietro casa, diventando sempre più grandi e sorridenti. Che bella l’innocente meraviglia dei bambini. La mia testa, appoggiata sulla finestra, cerca un cuscino, i miei pensieri una risposta. Cosa succede a un certo punto? Tutti noi, da piccoli, rimaniamo affascinati dai grandi camion… E poi? Cosa accade dopo? Lasciamo indietro l’interesse e la passione come vestiti che ci vanno stretti? Crescendo li seppelliamo nella scatola dei ricordi o li buttiamo via? È vero, non tutto quello che ci piace durante l’infanzia, poi ce lo porteremo da grandi, ma in questo caso l’amore diventa odio e cerco di capire perché.
Quel giorno che cambia la prospettiva
Forse l’innocenza e la genuinità dei bambini filtra il mondo attraverso il buono, i piccoli riconoscono il ruolo dei grandi veicoli. Le macchine corrono veloci, le moto diventano quasi acrobatiche, i trattori arano il terreno, gli scavatori lavorano nei cantieri, i camion portano in giro tutto quello che serve per lavorare. Rimangono affascinati da ogni singolo allestimento, conoscono le marche e le funzionalità e quando lo raccontano, cercando di arrivare con la voce al mondo adulto, le corde vocali cantano interesse smisurato. Vibrano alla stessa velocità del cuore.
Poi accade che, lentamente, i filtri con cui si guarda il mondo cambiano. Siamo su quella macchina che corre veloce, in ritardo per l’appuntamento che aspettavamo da tanto e un camion interrompe il nostro ritmo. Come la pubblicità prima della battuta finale del film. Ora è il nervosismo ad andare alla stessa velocità del cuore. Quel piccolo rallentamento lo percepiamo come il male assoluto, l’ostacolo al nostro desiderio. Scendiamo dall’auto e, forse, notiamo un autista vicino al suo rimorchio che si lava le mani lasciando scorrere l’acqua gelida della sua tanica.
Ed ecco che il filtro si sporca. I nostri occhi sono velati dalle impurità, come i filtri dei camion quando arrivano al tagliando. Trattengono il brutto e lasciano passare il bello, dimenticandoselo. Ed eccoci inveire contro il camionista che passa in una via troppo stretta, ignari del fatto che è l’unico passaggio per arrivare a destinazione, magari con nostro figlio in auto ad ascoltare quel corredo di brutti aggettivi scagliati con ira contro la stessa figura dell’autista.
La conferma della percezione
Il titolo del quotidiano scrive perentorio: «Tir schiaccia auto». A quel punto ritroviamo il sostegno alla nostra tesi, secondo cui i camionisti siano tutti delinquenti o maleducati.
A maggior ragione quando ci rispondono con un gestaccio al nostro colpo di clacson con cui manifestiamo la volontà di passare senza considerare lunghezza e peso di quel mezzo, non così manovrabile come la nostra auto.
Il vizio della speranza
«Sono a casa».
«Ciao Papà».
Tun tun tun tun tun: i piedini corrono verso Matteo, si abbracciano. Sorrido mentre guardo mio marito e ascolto mia suocera dirmi che anche lui, da piccolo, aspettava con ansia suo papà arrivare a casa con il camion. Allora forse, qualcuno capace di custodire gelosamente il filtro giusto c’è, qualcuno che decide di vedere il mondo grande, colorato, potente e luminoso come il camion del papà. Si, esistono e sono quelle persone – un po’ Peter Pan, forse – che poi salgono in camion e che ancora riconoscono il bello dietro a qualcosa di così fastidioso per gli altri.
Sono gli stessi che sacrificano giorni e settimane per distribuire quello che ci serve o che distrattamente ordiniamo online correndo in auto, rischiando di essere noi la causa di quell’incidente per il quale poi si darà la colpa «al più grande».
Sono gli stessi che si sentono utili quando fanno bene il loro lavoro, consapevoli che la produzione di merci continuerà, che il gasolio non mancherà, che i vestiti saranno pronti per essere acquistati. Sono gli stessi che si destreggiano nel traffico e che dormono in piazzali freddi e vuoti, spesso distanti dai loro cari.
Sono gli stessi che suonano le trombe delicatamente per far felice quel bambino convinto della loro bontà. Quel bambino che dovremmo rispolverare dai nostri cuori e di cui dovremmo mantenere la curiosità e la volontà di capire il mondo, filtrandolo con positività e comprensione.