Martedì 7 marzo a Stoccolma ci sarà un Consiglio europeo che avrebbe dovuto approvare definitivamente il regolamento licenziato dal Parlamento comunitario lo scorso 14 febbraio, con cui si fissava lo stop alla commercializzazione di autovetture e veicoli commerciali leggeri nuovi equipaggiati con motori endotermici dal 2035, allo scopo di tagliare per quella data le emissioni di questi veicoli del 100% rispetto al 2021.
Invece, all’ordine del giorno del Consiglio questo tema non è entrato per una ragione molto semplice. Ci sono quattro Stati che hanno manifestato posizione contrarie. Per la precisione, la Polonia (che aveva già votato contro in un precedente Consiglio), la Bulgaria (che si era astenuta, ma una tale manifestazione equivale a un voto contrario), a cui nelle ultime ore si è aggiunto il «no» secco dell’Italia e quello (un po’ meno secco, ma chiaro) della Germania. A quel punto, la presidenza di turno svedese ha preferito rinviare il voto. Ma cerchiamo di capire meglio cosa si muove dietro a questa partita.
Partiamo innanzi tutto dal fattore procedurale. Un regolamento va approvato a maggioranza qualificata, nel senso cioè che richiede due condizioni sovrapposte: per un verso, cioè, va approvato dal 55% degli Stati membri (almeno 15 rispetto ai 27) e, in più, questi Stati devono rappresentare come minimo il 65% della popolazione totale della Ue. Quindi, le posizioni dei quattro paesi ricordati (Italia, Germania, Polonia e Bulgaria) di fatto mettevano il regolamento a rischio di bocciatura creando quella che si definisce in gergo «minoranza di blocco».
Italia e Germania: le ragioni degli scettici
Vediamo invece le motivazioni degli scettici. Il fattore evidente è che a esprimere contrarietà sono due paesi che hanno una posizione importante in termini di produzione automotive. Ovviamente, la Germania con un peso maggiore rispetto all’Italia almeno per quanto riguarda l’assemblaggio finale, anche se la nostra penisola eccelle in fornitura di componentistica. Questo fattore è strategico in termini di competizione internazionale, perché è evidente che un’elettrificazione della mobilità creerebbe maggiori chance all’industria cinese a discapito di quelle europea. A questo proposito il ministro per le Imprese e il made in Italy, Adolfo Urso, ha richiesto a Bruxelles «maggiore pragmatismo» e, soprattutto, «una visione più adeguata alla realtà, nella sfida della transizione ecologica e industriale». E tale visione è stata circonstanziata in una nota del governo in cui si dice a chiare lettere che si può fissare «l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 100% nel 2035 e non prevedere alcun incentivo per l’uso di carburanti rinnovabili». Ciò che l’Italia lamenta, cioè, non è tanto l’elettrificazione dei veicoli leggeri, quanto il fatto «che essa debba rappresentare, nella fase di transizione, l’unico percorso per raggiungere le emissioni zero».
E rispondendo alle domande del Corriere della Sera, il ministro Urso ha ribadito lo stesso concetto in maniera ancora più netta: «Se altre tecnologie oltre l’elettrico, come i carburanti biologici e l’idrogeno, dove l’Italia è in posizione avanzata, garantiscono gli stessi risultati in termini di emissioni zero, perché non battere anche queste strade?».
E poi si è detto convinto «che la posizione italiana diventerà maggioritaria. Altri Paesi in queste ore ci hanno manifestato il loro consenso. E nel 2024 ci saranno le elezioni europee e cambierà sia il Parlamento sia la Commissione». E quindi a quel punto ci sarebbe ulteriore tempo per affidare la transizione green non soltanto all’elettrico, ma anche ai biofuel e all’idrogeno.
In ogni caso il ministro confida sull’Europa. E da Bruxelles si aspetta l’istituzione «di un fondo sovrano europeo per acquisti comuni di materie prime critiche e di nuove regole commerciali a tutela delle produzioni Ue». Mentre, rispetto agli incentivi, invita a seguire l’esempio degli Stati Uniti che concedono di più a chi acquista veicoli prodotti all’interno del paese» e si dice favorevole a riorientare gli incentivi in chiave nazionale».
Peraltro, non sarebbe la prima volta che si bussa alla porta dei biocarburanti in funzione della decarbonizzazione dei trasporti. Già la direttiva RED I (2009/28) aveva previsto il raggiungimento del 10% di quota rinnovabile entro il 2020, poi portato al 14% entro il 2030 con la RED II (2018/2001). E sempre questa normativa contemplava il ricorso a rifiuti, residui, materie cellulosiche di origine non alimentare e materie ligno-cellulosiche per non gravare troppo sul versante alimentare.
I biocarburanti, una tradizione ecologica
In Italia poi si è andati anche oltre, visto che il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima del 2019 stabilisce l’obiettivo di raggiungere una quota di rinnovabili nei trasporti al 22% entro il 2030, coprendo questa percentuale con il ricorso per il 38,6% a biocarburanti. Così come può essere letta sempre in quest’alveo lo stanziamento di 1,92 miliardi di euro previsto dal PNRR per dare maggiore impulso all’utilizzo del biometano nel settore dei trasporti. E proprio questo carburante, seppure al 2021 rappresentasse soltanto il 6,8% sul totale dei biocarburanti (la fetta preponderante, pari al 91,4%, è assorbita dal biodiesel), in ogni ha fatto registrare una crescita esponenziale in particolare da quanto anche il prezzo è tornato a livelli quasi normali.
A proposito di biocarburanti si può ricordare che Eni la scorsa settimana ha lanciato sul mercato un gasolio generato esclusivamente da materie prime rinnovabili.
Come funzionano i carburanti sintetici
E poi c’è il capitolo dei carburanti sintetici, quelli che vengono realizzati tramite elettrolisi, scindendo cioè l’idrogeno presente nell’acqua dall’ossigeno e combinando con la CO2 presente nell’aria. La Germania al riguardo è avanti e vanta molti investimenti, compresi quelli di Bosch, Porsche e Audi. Ma anche in Italia Eni avrebbe intenzione, insieme a Snam, di realizzare a Ravenna un centro per la cattura e lo stoccaggio di CO2 utilizzando i giacimenti offshore di metano esauriti presenti nell’Adriatico e che quindi andrebbe a compensare quella emessa dai veicoli.
Il problema attuale è quello del prezzo, in quanto un litro di e-fuel avrebbe un costo variabile tra i 6 e i 9 euro, investiti soprattutto nella produzione dell’idrogeno. Ma Franco Del Manso, dell’ufficio Rapporti internazionali ambientali e tecnici di Unem, è convinto che «già nel 2030, e ancor più nel 2035, il prezzo alla produzione sarà più basso se si continuerà con ricerca e sviluppo». E aggiunge soprattutto che se oggi il costo della generazione elettrica da fonti rinnovabili può raggiungere un terzo del costo totale del carburante – quindi una cifra variabile tra i 2 e i 3 euro – «la realizzazione delle economie di scala lo porterebbero sotto i 2 euro al 2030 e attorno a 1 euro al 2050».
Per Del Manso battere questa strada sarebbe opportuna per criteri numerici: in Europa – spiega – «oggi per muoversi si consumano 350 milioni di tonnellate di carburante. Non solo per le auto, ma per aerei, navi e treni (non elettrici). Il passaggio dalla sera alla mattina dell’elettrico non sarà possibile». E comunque se anche l’elettrico riuscirà a imporsi, resteranno in circolazione 300 milioni di auto a motore a scoppio in Europa che continuerebbero a inquinare. Alimentarle con carburanti sintetici o con biocarburanti potrebbe fornire una soluzione.