Il 19 settembre, lo stesso giorno in cui Assotir organizzava a Roma, all’interno del ministero delle Infrastrutture, un convegno su «L’Aggregazione nell’Autotrasporto: solo storia o anche futuro?», Il Sole 24 Ore pubblicava due articoli che sembravano propedeutici all’argomento trattato. Il primo riportava dati Cerved relativi all’incremento del 5,2% nel secondo trimestre del 2023 dei fallimenti aziendali, precisando che a soffrire di più sono le ditte individuali (per le quali l’aumento è stato del 27,7%) e più quelle più piccole con fatturato tra i 2 e i 10 milioni (per le quali l’impennata sale al 44,8%).
Il secondo articolo era dedicato alla diminuzione dei prestiti concessi dalle banche alle PMI, delle loro difficoltà crescenti a ottenere finanziamenti e, tra le altre statistiche, riportava quella di Confcommercio secondo cui i rincari dei tassi hanno accresciuto di 6,7 miliardi i costi delle piccole imprese.
Basterebbero questi dati per rispondere, tramite la seconda opzione, all’interrogativo presente nel titolo del convegno. Con la puntualizzazione che l’aggregazione nell’attuale frangente non è una scelta, ma un obbligo. In quanto, almeno per chi dispone di dimensioni contenute, è la sola alternativa alla chiusura. Perché se è vero che quando l’economia tira, quando – com’è accaduto dal post-pandemia in poi – la domanda di trasporto supera l’offerta e le tariffe del servizio prendono ossigeno, tutti riescono a trovare spazio. Ma nei momenti di difficoltà, in quelli gravati da crescenti costi di gestione e dal rallentamento dell’economia, le prime aziende a subire ferite sono sempre quelle piccole. Quelle che, appunto, farebbero meglio, invece di perire, a battere la strada aggregativa. Ma questo è lo spoileraggio di un convegno giunto a tale conclusione. Proviamo a percorrere a ritroso il percorso con cui ci si arrivati.
Quanti sono i consorzi di autotrasporto in Italia?
Cominciamo da una fotografia dell’esistente e da una quantificazione dei consorzi. Il presidente dell’Albo degli autotrasportatori, Enrico Finocchi, ha riferito che «l’Albo ha verificato la regolarità di 43 mila imprese iscritte (su circa 100 mila complessive) e tra queste c’erano fino a oggi 2.600 consorzi, per la maggior parte esterni». Quindi – aggiungiamo noi – se le imprese del settore sono almeno il doppio di quelle verificate, anche il numero dei consorzi può essere stimato attraverso analoga moltiplicazione.
Altro dato significativo fornito da Finocchi riguarda il contesto in cui queste forme aggregative hanno dato prova di funzionalità pratica, visto che – ha spiegato – «i consorzi costituiscono i due terzi dei richiedenti il rimborso dei pedaggi autostradali, ma di fatto percepiscono più del 90% dello stanziamento».
Cosa spinge all’aggregazione?
È la domanda chiave, ma non presenta risposte edificanti. Nel senso che il padroncino italiano in genere non si aggrega per cultura, ma per induzione esterna. Il presidente di Federtrasporti, Claudio Villa, lo ha dimostrato chiaramente chiedendo supporto alla storia. Quella che insegna come i primi consorzi di autotrasportatori, sorti intorno agli anni 60, siano nati il più delle volte per iniziativa di grandi imprese committenti, in particolare del petrolifero, che stanche di trattare con pletore di piccoli trasportatori, li convinsero a mettersi insieme e a individuare un rappresentante comune. Ciò non toglie che il circolo virtuoso si innesti dopo, quando i padroncini sperimentano lo stare insieme e toccano con mano i benefici conseguenti. Primo tra tutti – sono parole dello stesso Villa – quello di «rimuovere il giogo delle agenzie di intermediazione», ma anche di «contenere la concorrenza reciproca, di generare economie di scala tramite acquisti collettivi, di costruire servizi personalizzati per gli associati». Tutti vantaggi elevati alla potenza quando con la nascita di Federtrasporti nel 1971, fiorì la prima realtà di secondo livello –aggregatrice degli aggregatori – che investì i risparmi prodotti dagli acquisti collettivi, in particolare nelle assicurazioni, nella costruzione di immobili logistici e di un’organizzazione comprensiva di realtà dedicate alla formazione, alla consulenza e all’editoria. «Tutte cose – ha sottolineato Villa con orgoglio – che nemmeno la più grande delle società del settore è in grado di concedersi».
Perché non c’è alternativa all’aggregazione?
Per aggregarsi ci vuole motivazione e questa, spesso, giunge dall’esterno. Ma in alcuni casi potrebbe essere sufficiente guardarsi allo specchio e constatare la propria condizione. È quanto ha sostenuto il presidente del Freght Leaders Council, Massimo Marciani, fornendo una diagnosi del settore simile a quella di un malato terminale, che si scopre tale, però, soltanto se si interviene in profondità. In superficie, infatti, si può essere tratti in inganno, perché l’autotrasporto conto terzi – stime Polimi – vale 50 miliardi l’anno e la logistica 116, ma soprattutto perché il 30% del PIL va oltre frontiera. Cosa che dovrebbe fare la gioia di chi movimenta merci. In realtà, ha spiegato il numero uno del FLC, chi produce vende franco fabbrica e quindi affida le merci a operatori stranieri che, giunti in Italia, possono pure fare cabotaggio, senza preoccuparsi dei controlli, visto che non esiste una lettera di vettura digitale e la polizia ferma più i trasportatori italiani che gli altri.
In più, secondo Marciani, il trasporto merci italiano soffre di un sovradosaggio di modalità stradale – attestata all’88% a fronte di una media europea del 77 – assunta tramite un parco di trattori ridotto (sono appena 190 mila, circa la metà rispetto a Polonia e Germania) e poco sicuro, visto che per il 45% ha più di 10 primavere alle spalle. Ma il paradosso è che lo Stato, consapevole di queste patologie croniche, concede da tempo all’autotrasporto sussidi ingenti che, nel 2020, hanno raggiunto 1,6 miliardi. Il problema è che il malato fa i capricci e invece di assumere le cure, le rigira ai propri committenti sotto forma di sconti. E altri soldi che stanno arrivando nella logistica sospinti dai fondi di investimento, non guardano all’autotrasporto a causa della sua ridottissima redditività. «Perché quando un’azienda ha un Ebitda inferiore al 2% – ha concluso il presidente FLC – significa che è tecnicamente fallita, al punto che se anche aumentasse il numero di veicoli, finirebbe per guadagnare meno». Davanti a un quadro così sconsolante secondo Marciani ci sono due cose da fare: creare raggruppamenti di aziende individuando forme di differenziazione e puntando a trattare alla pari con la committenza; pretendere dagli organi deputati dello Stato l’espulsione dal settore di chi lavora in modo scorretto. Perché «più vi rimane – ha concluso – maggiore il rischio di fallire tutti».
Perché l’aggregazione combatte l’intermediazione
La storia citata da Villa non insegna soltanto che la spinta all’aggregazione proviene da fattori esogeni, ma dimostra pure l’esistenza di un rapporto di proporzione inverso, tale per cui più si realizza un’aggregazione, tanto meno l’intermediazione trova terreno su cui attecchire. Ragion per cui la stessa aggregazione diventa, come ha sottolineato la presidente di Assotir, Anna Vita Manigrasso, lo strumento con cui accrescere la capacità concorrenziale di realtà piccole e attive su «un mercato in cui le regole sono dettate da società divenute sempre più grandi». Una leva che la politica dovrebbe attivare sia perché – ha puntualizzato – «non richiede ingenti risorse», sia perché il sostegno economico alle piccole imprese aggregate potrebbe derivare indirettamente dalla «liberazione» di quei 5miliardi che, secondo il segretario di Assotir, Claudio Donati, drena la subvezione.
In quanti lavorano come primi vettori
La stima dei 5 miliardi, peraltro, andrebbe ritoccata verso l’alto visti i risultati di due indagini di mercato emerse nel corso del convegno. Dalla prima, citata dallo stesso Donati e condotta in Sicilia, emerge che negli ultimi 10 anni le500 imprese di capitali con almeno 4 milioni di fatturato, hanno aumentato il giro d’affari del 50%, ma diminuito il valore aggiunto del 22%. Segno inequivocabile che hanno incrementato l’affido ad altri di viaggi propri. Dalla seconda, riportata dal presidente di Consat, Fabio Locascio, e condotta tra aziende di autotrasporto con 50 camion, emergerebbe come queste agiscano in veste di primo vettore soltanto nel30% dei trasporti, mentre viaggerebbero come secondo nel 70%.
Anche Consat ha sperimentato come la spinta aggregativa possa fronteggiare l’intermediazione crescente quando, dopo una ventennale esperienza come consorzio finalizzato a ottenere il massimo rimborso dei pedaggi e dopo essersi misurato con una gamma di servizi riservati agli associati al sistema Assotir, dal 2020 si è misurato direttamente con l’attività di trasporto. Così, si è confrontato con vari settori merceologici (dalle biomasse al collettame fino alla temperatura controllata) sbarcando anche nel trasporto intermodale marittimo. E nel porto di La Spezia ha trovato un mercato fortemente filtrato dalle agenzie, in quanto spesso il trasportatore non ha le dimensioni sufficienti a gestire le tante pratiche richieste da questa attività. Eppure, ha raccontato soddisfatto Locascio, quando «abbiamo assunto commesse dirette insieme agli spedizionieri, molti autotrasportatori del luogo si sono subito avvicinati a Consat». D’altra parte, questo consorzio garantisce pagamenti in 60 giorni, solidità finanziaria, possibilità di diversificare i settori di attività e di ottimizzare l’impiego dei veicoli. Il tutto in cambio di un contributo di gestione variabile tra il 3 e il 4% e, quindi, molto inferiore al 10-20% trattenuto da un’agenzia di intermediazione e di tariffe migliori, garantite dall’opportunità di gestire come primo vettore il 56% dei viaggi.
Come lo Stato fronteggia la subvezione
È un esempio virtuoso, ma non basta a frenare l’intermediazione. A tale scopo – lo chiede esplicitamente Donati – serve un intervento dello Stato finalizzato a rimuovere anche una stortura evidente: i grandi trasportatori che fagocitano il mercato non si confrontano con il committente, così come non lo conosce colui ch fornisce i servizi di trasporto, limitandosi ad assecondare chi gli dice dove andare». Una situazione perversa e che, con ogni probabilità, non soddisfa nemmeno chi domanda trasporti.
In realtà, lo Stato al problema dell’intermediazione ha già prestato attenzione, rendendo possibile normativamente un solo passaggio di subvezione. Soltanto che, ha constatato il professore di diritto dei Trasporti e della Navigazione all’università di Trieste, Massimo Campailla, quella normativa, introdotta nel dicembre 2015, è stata pochissimo applicata perché non contempla sanzioni per chi la viola. Soltanto all’indomani della sua introduzione ci fu, oltre che un leggero sussulto del numero di consorzi e di cooperative, un piccolo boom dei contratti di rete. Ma queste forme aggregative, oltre a essere poco unificanti (in particolare nella forma della rete-contratto), sono state create – ha ricordato il professore – in maniera poco «genuina», per mitigare cioè l’impatto della normativa. Prova ne sia che quando poi ne è stata constatata la non punibilità, anche i contratti di rete hanno preso a scemare, malgrado siano trattati alla stregua di un consorzio, visto che, come l’associato a questa struttura, anche «il retista che riceve ordine di trasporto rimane primo vettore al pari di colui che glielo ha passato». Molto di più si può fare oggi recependo la direttiva europea che, nella dimostrazione del requisito di stabilimento, fissa una proporzione tra fatturato e veicoli a disposizione.
Un ragionamento integrato dal presidente Finocchi, puntualizzando che se è vero che il divieto di andare oltre il primo passaggio di vezione non ha sanzioni, è anche vero che il contratto di trasporto sottoscritto a prescindere da tale vincolo è nullo. E la qualcosa in termini civilistici produce conseguenze rilevanti (come quella, per esempio, di vedersi applicata una rivalsa assicurativa). Magari non in grado di frenare il fenomeno, ma comunque rilevanti.