Ritengo doveroso chiarire una posizione quando non viene capita. Ripeterla e approfondirla fino a quando non appare chiara anche a chi la osserva di sfuggita.
Nelle dinamiche social spesso si ruba un’informazione in velocità e si è spinti altrettanto velocemente a rispondere. Quando si parla di carenza di autisti, le carte sul tavolo sono molteplici e affrontarle in modo fugace (è qui il mio errore) risulta controproducente. E dunque, cosa penso io – Laura autista da nove anni e moglie di un padroncino – sulla carenza di autisti?
Penso che ne stiamo parlando male da troppo tempo e ricorriamo con facilità a soluzioni palliative cercando risposte veloci a un’urgenza che invece trova radici storiche. Il settore, la sua utilità, la sua importanza, la sua bellezza sono sepolte sotto le macerie e non saranno certo strumenti usati male o inutili a ricostruirlo.
Non è rimuovendo le barriere all’ingresso o i limiti in uscita (vedi le proposte sul costo delle patenti, o quelle sull’età minima e massima della stessa) che risolveremo il problema e nemmeno con il decreto flussi, rendendo il trasporto un ideologico strumento di riscatto sociale.
Ecco perché gli autisti scappano
Il trasporto è stato per anni un lavoro di facile accesso (tramite le patenti militari e la Cqc d’ufficio) e uno strumento di crescita sociale, in particolare quando è nato nel periodo post – bellico. Ma oggi non può più esserlo. L’emorragia di autisti si è verificata a causa delle condizioni di lavoro perpetuate nel tempo che hanno reso il settore deludente e poco attrattivo.
I dati parlano chiaro: i giovani under 25 si avvicinano (+67%) e rimangono anche gli over 60, quelli che scappano sono la generazione che ha tra i 30 e i 59 anni (-40%), a dimostrazione che più nessuno riesce a reggere una vita da mediano (Guarda il video di Laura Broglio).
È chiaro dunque che se non si lavora al cuore del problema, sulle condizioni di chi rimane, tutto sarà inutile.
Una nuova cultura: il trasporto da costo a investimento
Questa urgenza richiede più tempo di quanto ne abbia avuto bisogno per manifestarsi e si risolve solo se siamo disposti ricostruire il settore iniziando a lavorare per creare una nuova cultura del trasporto. Una cultura imprenditoriale in grado di aiutare le imprese a trovare un nuovo dialogo con la committenza, facendole spostare il trasporto dalla voce “costi” a quella “investimenti”.
Serve una nuova coscienza di filiera
Una cultura che faccia nascere una coscienza di filiera in grado di riconoscere l’importanza (anche strategica oltre che etica) di scegliere vettori che operino in regola, con alti standard di sicurezza, con personale qualificato e ben retribuito, senza chiudere gli occhi davanti alla subvezione irregolare.
Una cultura che passi da una formazione professionale aggiornata già a partire dalle autoscuole, mettendole in condizione di offrire servizi con autoveicoli in linea con gli standard odierni, corsi pratici di fissaggio del carico e di guida sicura, ma anche conoscenze di logistica e tirocinio in azienda. Tutto questo potrebbe non soltanto sostituire la Cqc, ma anche permettere un percorso di carriera a chi da autista abbia voglia e attitudine per passare ad altre mansioni e viceversa.
Essere solo patentati non basta più, dobbiamo essere preparati
Una cultura che pretenda investimenti tecnologici per migliorare il gap logistico e alleviare le attese interminabili. Investimenti per infrastrutture adeguate e dignitose per il personale viaggiante che si fa portavoce in prima linea del settore.
Ecco, è in questo contesto di rinnovo culturale e di creazione di una nuova coscienza che io colloco il difficile concetto di corresponsabilità.
Noi autisti e il rispetto che dobbiamo al nostro lavoro
Dopo anni di stanchezza dovuta al sovraccarico di macerie, capisco che sia estremamente difficile trovare la forza di guardarsi allo specchio e chiedersi se, anche noi, abbiamo contribuito a questo degrado. Ognuno per la propria parte, naturalmente, proporzionalmente alla propria responsabilità.
Se vogliamo attuare una rivoluzione culturale positiva, credo che sia importante prendere atto dell’importanza che ogni azione ha sulla percezione del nostro settore e della categoria. E se aziende, istituzioni, organi di rappresentanza sono chiamati a non rimanere ciechi davanti a queste tematiche e a operare con etica e coerenza, noi autisti abbiamo il dovere di rispettare l’ambiente in cui operiamo, di rispettare il nostro collega, di non alimentare le dinamiche del sacrificio, di prendere consapevolezza delle regole e delle dinamiche del nostro settore e di conoscere a fondo i nostri diritti e doveri.
Certo, potrà sembrare insufficiente davanti alla catasta di macerie da raccogliere, ma il gioco di puntare il dito sempre contro qualcun altro o di girare l’occhio verso un problema più grande non funziona più.
Il passato ha prodotto un crollo, il presente è inadeguato, il futuro è incerto. Ma noi abbiamo la possibilità e la responsabilità di ricostruirlo, un sasso alla volta. E questa ricostruzione passa anche dal tenere un bagno pulito e dal non denigrare una collega perché la consideriamo inferiore a noi.