Dopo lo spaesamento iniziale, se l’interruzione dura troppo a lungo, le imprese cominceranno a muoversi al buio e a riportare parte della produzione vicino ai mercati di riferimento. E per l’Italia si apre un’occasione: lavorare su burocrazia e innovazione, per farsi trovare, quando si riaccenderà la luce, più bella di prima
«È come se ci trovassimo in una stanza, a fare le cose di tutti i giorni, e all’improvviso – paf – andasse via la luce». È solo apparentemente paradossale la metafora scelta da Massimo Marciani, presidente del Freight Leaders Council, fondatore di FIT Consulting e premio Logistico dell’anno 2019, per spiegare l’impatto del coronavirus sulla logistica. Ma il ricorso a un evento non insolito nelle nostre case ha un motivo ben preciso: «Secondo me, in questo momento», spiega, «di fronte a un evento totalmente inatteso e per certi versi incomprensibile, dobbiamo parlare con il linguaggio di tutti i giorni, riportandoci a esperienze che già conosciamo e che ci spaventano di meno…».
Come un’interruzione improvvisa della corrente…
A chi non è capitato… In questi casi si susseguono tre tipi di reazione. La prima, nell’immediato, è di spaesamento: per un attimo ci si sente a disagio, perché si perdono le dimensioni nelle quali si agisce abitualmente. Chiaro che questo succede a tutti, tranne ai non vedenti, abituati a muoversi al buio, poco e con cautela. Il che, fuor di metafora, vuol dire che un evento improvviso come il coronavirus impatta maggiormente sui Paesi logisticamente più attivi, con scambi enormi e continui, che non su quelli – chiamiamoli così – «sovranisti» con un’attività logistica molto ridotta: i non vedenti della metafora.
Poi – dopo lo spaesamento iniziale – che succede?
Il secondo pensiero è che ci sarà stato un corto circuito da qualche parte e che la luce tornerà al più presto. Dunque, l’opzione che prevale in questa fase è di non fare niente, di restare in attesa. Ma se l’attesa diventasse un po’ lunga ci si comincia a muovere nella stanza, a toccare a memoria i vari mobili, a riprendere la misura degli spazi, per proseguire l’attività nonostante il buio. Poi – terzo pensiero – se la luce torna dopo un po’, ci si limita a tenere una torcia a portata di mano per l’eventualità che, in futuro, capiti ancora che la luce vada via; ma se si rimane al buio più a lungo – molto a lungo – quando si riaccende la luce, viene anche il dubbio che i mobili siano stati sposati, che qualcuno possa essere entrato in casa, magari con gli occhiali a infrarossi, e mosso o portato via qualcosa.
Fuor di metafora?
Se il virus si rivelerà come una momentanea interruzione di corrente e i suoi effetti saranno contenuti in qualche mese – entro l’estate – in tempi cioè industrialmente poco compromissivi a livello logistico, ci sarà una fase iniziale di stordimento – come quando la luce ritorna all’improvviso – ma l’esperienza varrà di lezione e la torcia da tenere a portata di mano sarà una risk analysis del proprio modello di business.
Ma se la luce va via per più tempo?
In questo caso, già quando è buio, magari con l’aiuto della torcia, ci si comincia a muovere a tentoni per trovare soluzioni. E le aziende, le grandi aziende che producono beni di largo consumo – automotive, elettronica, telefonia cellulare – e fanno logistica a grandi livelli perché devono garantirsi la continuità produttiva, cominceranno a cambiare in corsa, a luce ancora spenta. A cominciare da quelle che hanno esternalizzato in Cina, perché lì il costo del lavoro è (sarebbe meglio dire: era) molto basso e quello della logistica irrilevante e quindi riuscivano a produrre grandi quantità a basso costo e con margini elevati. Ma se la luce resta spenta troppo a lungo, non possono correre il rischio – per fare un esempio – di non vendere più i telefoni cellulari perché mancano gli schermi. Quindi, se gli effetti del virus si prolungheranno ci troveremo di fronte a una ricostruzione dell’ecosistema della fabbrica. Voglio dire che quelle grandi aziende produttrici di beni di largo consumo manterranno ancora gran parte della produzione in Cina, ma cominceranno a richiamare un 30% nelle vicinanze del loro mercato di riferimento. In modo che se la luce va via di nuovo a lungo, possono comunque continuare a produrre e a vendere.
Insomma, si tratta del reshoring, il rientro delle attività produttive esternalizzate…
Non solo e non semplicemente. Se gli effetti del virus si protrarranno oltre l’estate, estendendosi, come appare scontato, a Stati Uniti, Germania, Francia e così via, posso immaginare che, per esempio, Apple deciderà di non produrre più soltanto in Cina e il baricentro dei flussi che in questo momento si trova nel Pacifico, si sposterà verso l’oceano Indiano, a un passo da Suez. E se passano per Suez offrono – anche a noi, soprattutto a noi – una grande opportunità.
Quale?
Oggi il sistema logistico italiano è stato messo praticamente in quarantena dalle conseguenze del coronavirus. Siamo noi a trovarci ora in una stanza nella quale tutt’a un tratto è calato il buio, ma non è che nelle altre stanze (paesi) la luce funzioni perfettamente. Per questo dobbiamo avere la freddezza e la lucidità di farci trovare, nel momento in cui la luce tornerà, diversi da quelli che eravamo quando si è spenta, perché se ci ritrovano uguali a prima è la fine. Faccio un esempio banale: se i grandi armatori spostano le loro mega container dal porto di Genova a quello, per esempio, di Algeciras non è detto che quando si riaccenderà la luce, poi ritornino a Genova; più tempo stanno nel nuovo scalo e più hanno la possibilità di ottenere servizi diversi e magari migliori. Quindi, se restiamo come eravamo prima, rischiamo brutto. Ma se quando si riaccende la luce ci facciamo trovare non la befana che eravamo prima, logisticamente parlando, ma una bellissima ragazza, allora la partita cambia completamente.
E come possiamo diventare una bella ragazza, logisticamente parlando?
Lavorando su due tavoli. Il primo è la sburocratizzazione: dobbiamo sfruttare il dialogo che si è aperto sul coronavirus tra governo e associazioni come un’occasione eccezionale per togliere lacci, laccioli, orpelli inutili e rendere il nostro sistema logistico molto più semplice, immediato e diretto. Il secondo è utilizzare i finanziamenti che il governo metterà a disposizione per un piano Marshall di digitalizzazione del settore. Dobbiamo tornare a essere i protagonisti dell’innovazione nella logistica. Ne ho già parlato con tutte le associazioni di categoria. Anzi, qualcuno mi ha obiettato che forse non ne siamo capaci. Gli ho risposto che invece ce la possiamo fare e ho portato come esempio il ponte Morandi. È la cartina di tornasole di quanta potenzialità inespressa abbia questo paese. Progettisti, manovali, imprese, enti locali sono tutti gli stessi, eppure ce l’hanno fatta. Cos’è cambiato? Semplicemente il modo di fare le cose.