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Il reshoring nell’autotrasporto | Si torna all’ovile, in punta di piedi |Inchiesta

Sono cambiate le condizioni che avevano spinto ad aprire sedi all'estero. I costi nei paesi dell'Est si avvicinano a quelli dell'Ovest; il Pacchetto mobilità ha messo dei paletti che riducono i vantaggi per le aziende fuori sede; le illegalità sono stroncate con maggiore efficacia. E anche il fisco si avvicina…

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La sbornia è finita. Le imprese di autotrasporto italiane che avevano dato vita nel primo ventennio del secolo alla cosiddetta «delocalizzazione selvaggia» sono spesso rientrate all’ovile e continuano a farlo. In silenzio, in punta di piedi, senza fanfara, perché è sempre bene che gli affari di famiglia siano lavati a casa. E anche i pochi di cui si è saputo ne parlano malvolentieri. «Non è un processo di grandi dimensioni», fa notare Patrizio Ricci, presidente di CNA-Fita, «ma è vero che un po’ alla volta chi aveva delocalizzato è rientrato».

Tranne i più strutturati. «Bisogna distinguere», fa osservare Giuseppina Della Pepa, segretario generale della confindustriale Anita. «Quelli che hanno avviato processi di internazionalizzazione, aprendo all’estero sedi operative per entrare in nuovi mercati, hanno consolidato nel tempo la loro presenza in tali Paesi. Coloro che hanno delocalizzato solo per abbattere i costi, si sono spesso dovuti ricredere e molti di loro sono rientrati in Italia».

Quindici anni fa l’esodo

Quanti? Per azzardare qualche numero bisogna risalire all’inizio del fenomeno. L’allargamento all’Est dell’Unione europea, con l’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Slovenia (2004), poi di Bulgaria e Romania (2007), quindi della Croazia (2007), tutti Stati con costi del lavoro, fiscalità, contribuzioni molto più basse rispetto a quelle italiane, sembrava un’occasione succulenta per molte imprese nazionali di autotrasporto. E in pochi anni filiali e sedi spuntarono come funghi in quei paesi. Secondo uno studio GIPA (realizzato per Unrae nel 2016), il fenomeno si è concentrato tra il 2012 e il 2013, con il 37% delle aperture di filiali all’estero e con il 10% delle flotte intervistate che aveva aperto sedi in Romania, Slovenia, Polonia, Ungheria.

Comunque, un grave danno per l’erario e per i posti di lavoro del nostro paese. Sempre GIPA nel 2015 aveva quantificato in 26 mila il numero di veicoli sopra le 3,5 tonnellate «sottratti» al fisco fra il 2008 e il 2013, con una perdita, tra imposte, accise e oneri sociali, di 10,4 miliardi di euro. Di questi 26 mila, 22 mila erano provenienti da imprese con più di 50 mezzi e 4.000 da aziende tra i 6 e i 49 mezzi. 

Qualche centinaio di imprese

Questi dati forniscono un’indicazione per capire, sia pure a spanne, in quanti scelsero la delocalizzazione. Intanto è significativo che l’indagine non tocchi i padroncini, impossibilitati dalle ridotte dimensioni a poter ambire ad aprire sedi all’estero. La seconda osservazione è che al di sopra dei 50 veicoli (all’Albo oggi ne sono iscritte 2.500) si tratta di aziende strutturate, spesso interessate ad ampliare l’orizzonte di attività. 

Restano quei 4 mila veicoli per le imprese tra i 6 e i 49 mezzi. A spanne dovrebbero essere qualche centinaio, in linea con le 850 stimare dal Centro studi Confindustria per valutare il reshoring di tutte le attività merceologiche. Ed è lì che vanno colte le ragioni della partenza e quelle del rientro. Che sono, poi, le stesse al contrario. GiPA attribuisce il 48% degli esodi ai costi di gestione, dal lavoro al carburante, il 40% alla pressione fiscale e il 32% alle difficoltà burocratiche, mentre solo il 13% aveva dichiarato di aver aperto all’estero per espandere il mercato.

Qualche cifra? Il costo lordo di un autista in Italia era di 60.200 euro annui, superiore ai 26 mila di media dei paesi dell’Est, ma anche ai 40.500 dell’Ovest. La pressione fiscale seguiva lo stesso andamento: in Italia il 66%, nell’Est il 31%, nell’Ovest il 53%. Burocrazia? Fatto 100 le difficoltà delle scartoffie italiane, le imprese intervistate valutavano quelle all’estero pari al 56%, di cui il 52% nell’Est e il 68% nell’Ovest.

Un mondo diverso

Paradossalmente, a leggere questi numeri c’è da chiedersi come mai le aziende fuggite all’estero siano state così poche. Ma forse c’entra anche la lungimiranza. Oggi quel mondo è totalmente cambiato. Il costo del lavoro medio (fonte Eurostat, 2023) in Italia è di 29,8 euro l’ora, ancora maggiore rispetto all’Est, anche se in questi paesi dal 2016 la crescita è stata esponenziale: la Slovenia ci ha quasi raggiunto con 25,5 euro, contro i 16,8 di sette anni prima; la Romania è a 11,0, ma ha più che raddoppiato dai 5,3 del 2016; la Croazia è cresciuta del 30% da 9,5 a 14,4 euro, come cresce anche la Bulgaria, che partiva da 4,5 euro ed è arrivata a 9,3. Fin dove saliranno tra qualche anno?

Oltretutto il miglioramento del tenore di vita ha allontanato dal mestiere quei conducenti che accettavano i disagi del mestiere pur di ottenere un lavoro. Ecco perché oggi la sempre più spasmodica ricerca di autisti si sposta ancora più a Est, in Ucraina e in Uzbekistan.  Un’associazione di autotrasportatori della Romania – dove secondo l’IRU mancano 71 mila conducenti di camion – fa pressioni sul governo di Bucarest per agevolare visti e patenti per gli autisti ucraini. Così come la Svizzera ha alleggerito le prove dell’esame di guida per gli ucraini, accettando la presenza di un interprete. A quelli uzbechi guarda invece la Lituania – una potenza nell’autotrasporto europeo – che punta ad assumerne 30 mila, chiedendo un più rapido rilascio dei visti di lavoro.

I costi esterni

Poi ci sono gli aumenti dei costi esterni. A gennaio in Romania gli autotrasportatori sono scesi in piazza per protestare contro gli aumenti dei premi di assicurazione. In fermento anche l’autotrasporto polacco, cresciuto a scapito di quello tedesco, ma incapace, con la sua miriade di piccole aziende, di affrontare le innovazioni del Pacchetto Mobilità e messo in ginocchio dalla guerra in Ucraina. «La sostituzione obbligatoria dei tachigrafi entro la fine dell’anno», ha affermato Waldemar Jaszczur, presidente del Comitato per la difesa dei trasportatori e dei datori di lavoro polacchi (KOPiPT), «è pura assurdità. Il costo di 4.000 zloty (circa 1.000 euro) per l’intervento non è sostenibile. La mia azienda ha 50 veicoli, il che significa che dovrà affrontare una spesa di 200mila zloty (50mila euro)». E ha minacciato di portare in piazza migliaia di mezzi. Proteste anche in Bulgaria, dove i veicoli industriali fino a 12 tonnellate devono ora pagare dieci centesimi di lev al chilometro di pedaggio (un lev vale circa mezzo euro) contro i precedenti sei e quelli più pesanti subiscono un aumento da 16 a 26 centesimi lev al chilometro. Non proprio il clima ideale per tenere in piedi un ufficietto e strappare lavoro alle imprese locali.

Pacchetto mobilità e fisco

Poi c’è il Pacchetto Mobilità con le sue regole più rigorose in materia di cabotaggio, tempi di guida e dumping sociale. «Ci siamo resi conto che alcune di quelle regole hanno di fatto ridotto la capacità di carico delle nostre rotte», conferma in anonimo un dirigente di una delle imprese rientrate, «e la decisione più naturale è stata quella di riportare i mezzi in Italia e di adottare una massiva riorganizzazione di tutti i processi per tenere sotto controllo i costi». 

Ma anche i vantaggi fiscali cominciano a mostrare la corda. È vero che la pressione in Italia è tra le più alte d’Europa, arrivando al 42,6% del PIL (Eurostat 2020), ma la Slovenia ha raggiunto il 37,7%, la Croazia arriva addirittura al 38,7%, mentre Ungheria e Repubblica Ceca sono attestate rispettivamente al 36,5 e al 36,1%.

Senza considerare i benefici che il governo nazionale eroga all’autotrasporto. Che con la pandemia sono diventati una torta allettante. «Non c’è nessun mestiere», ricorda Ricci, «che al tempo del Covid ha avuto più di un miliardo di benefici fiscali. In quel periodo, credo che solo in Italia e solo il mondo dell’autotrasporto ha portato a casa tanto». Il presidente di CNA-Fita e vicepresidente dell’Albo degli autotrasportatori non lo dice esplicitamente, ma dal sorriso che accompagna le sue parole traspare la soddisfazione di chi quel risultato ha contributo a ottenerlo.

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