Se c’è un’associazione che da sempre si fa paladina nella lotta contro la subvezione, questa è sicuramente Assotir. L’ultima battaglia, per certi versi ancora in corso, ha cercato di combatterla all’ombra del Regolamento 2020/1055, entrato in vigore il 22 febbraio 2022, che ha introdotto, tra i criteri con cui dimostrare il requisito di stabilimento, la proporzionalità tra fatturato e veicoli/dipendenti.
Claudio Donati colse al volo questa opportunità più di tre anni fa: «Se ci deve essere proporzione – notò subito – non ci può essere tanta subvezione». Ma da allora non molto è cambiato. Una ragione di più per tracciare un bilancio e valutare se esista ancora una via di uscita.
Partiamo dal principio: qual è il sintomo dell’esistenza di una diffusa subvezione nel trasporto?
È sufficiente prendere la classifica delle prime dieci società del settore elaborata in base al fatturato e sommare quelli di tutte. Viene fuori una cifra di 14 miliardi di euro, ma a generarla è un parco complessivo di appena 530 veicoli, quando invece per metterla insieme, ipotizzando – in maniera generosa – che un mezzo riesca a fatturare 200 mila euro all’anno, ne servirebbero circa 6 mila. La deduzione è evidente: solo il 5% del fatturato di queste aziende proviene da mezzi propri, il restante 95% è affidato in subvezione.
Ma quei 14 miliardi non potrebbero derivare da lavori riferibili ad atti vità logistiche diverse dal trasporto?
È molto probabile. Ma le cifre complessive sono così alte che se anche il trasporto assorbisse soltanto una parte – stimiamo 10 miliardi – il guadagno di queste dieci società, ottenuto trattenendo un 10% del fatturato, ammonterebbe comunque a un miliardo. Tra i criteri con cui dimostrare il requisito di stabilimento la normativa europea contempla la proporzionalità tra fatturato dell’azienda e il numero dei suoi veicoli/dipendenti.
Per contrastare la subvezione come va quantificato proporzionalmente questo criterio?
Tre anni fa stimammo corretto imputare l’80% al fatturato generato con mezzi propri e il 20% a quello proveniente da subvezione. In ogni caso non ne facciamo un punto fermo: se anche si scendesse al di sotto sarebbe comunque importante. In linea di principio direi che si può parlare di proporzionalità quando almeno più della metà del fatturato è frutto di attività proprie. Se scende al di sotto, a quel punto l’azienda in questione non si occupa più prioritariamente di autotrasporto, ma fa un altro mestiere.
Perché la subvezione incontra tanta fortuna?
Perché da una decina di anni i grandi operatori hanno capito che conviene di più vendere trasporti a terzi, incassando il 10% della tariffa iniziale, piuttosto che caricarsi di oneri, investimenti in personale e in veicoli, rischi di impresa presenti sulla strada. Una ricerca dell’Università di Catania lo mostra in modo evidente, rilevando come, da un certo momento in poi, le grandi imprese abbiano smesso di investire sui camion, per esternalizzare. E questo ha determinato un’altra conseguenza: chi guadagna vendendo subvezione, non ha interesse per il livello della tariffa. Perché se anche è molto bassa, in ogni caso troverà qualcuno disposto a effettuare il trasporto.

Ci sono segmenti di trasporto più impermeabili al fenomeno?
Credo che, soprattutto dopo le inchieste della procura di Milano, nella distribuzione e tra i corrieri si tenda a rispettare la normativa. BRT, per esempio, con cui Assotir ha intavolato una lunga trattativa, quando sigla i contratti con i fornitori richiede esplicitamente il rispetto del divieto di subvezione. E questo avveniva già prima della vicenda giudiziaria. E comunque in generale il secondo passaggio di vezione è vietato per legge. Quindi, se si adotta un contratto scritto il committente vi introduce quasi sempre il divieto di subvezione.
E settori più esposti?
Sono tutti quelli in cui il trasporto si affida tramite gare, in quanto la logica del massimo ribasso è la madre della subvezione. Perché se io vinco una gara tramite un ribasso clamoroso, il contratto che ne viene fuori è già orientato alla subvezione. Perché se dalla base iniziale la tariffa è decurtata del 40-50%, alla fine è come se non esistesse. Quindi, chi vince la gara non ha interesse a farsi pagare quella tariffa, ma a trattenerne una parte quando affiderà il trasporto in subvezione.

Nei tender accade la stessa cosa?
Dipende. Anche se di solito nei tender i committenti inseriscono la clausola sul divieto di subvezione, perché così tendono a scaricarsi delle responsabilità. È un po’ come dire: «Io ti ho avvertito, se poi non ti adegui sono fatti tuoi».
Nel senso che se qualcosa dovesse andare storto, difficilmente potrebbe essere coinvolto il committente?
Secondo me se un committente mette per iscritto che la subvezione è vietata, rimane estraneo. In quanto se poi un terzo vettore coinvolto illegittimamente subisce un infortunio sul lavoro, una perdita del carico o danni di vario genere, a quel punto la partita si gioca tra lui e il secondo vettore. Il problema semmai è che spesso questo terzo vettore potrebbe non sapere che posto occupa nei passaggi, in quanto non ci sono documenti – come poteva essere un tempo la scheda di trasporto – in grado di dimostrare per chi sta lavorando. E quindi andrebbe tutelato. Il secondo vettore, invece, che gli ha dato il viaggio ed è consapevole di agire contro la legge, probabilmente subirà le conseguenze più pesanti.
È possibile quantificare quanti passaggi di vezione ci sono dietro a un trasporto?

È complicato, anche perché bisognerebbe chiarirsi da dove si inizia a contare. Mi spiego: noi oggi registriamo una tendenza che vede sempre meno committenti reali all’origine della domanda, perché la loro posizione è occupata da grandi aziende logistiche. Sono queste a sottoscrivere i contratti in veste di committenti e chiamano come primi vettori imprese medio-grandi da 2-300 camion che poi a loro volta ricorrono alla subvezione. In questo modo si rispetta la normativa, ma c’è quel vizio di partenza, seppure legittimo in quanto per legge è committente anche l’impresa iscritta all’Albo che esercita l’autotrasporto, stipula contratti scritti e svolge servizi logistici. Poi, quello che succede più in basso è difficile quantificarlo, ma di certo si va molto oltre il secondo livello.
Perché un padroncino che lavora per una grande azienda, che non sa nemmeno a che livello della catena di vezione si pone e che rischia tanto per ricavare poco, accetta tutto questo invece di entrare in una struttura aggregativa?
Io ho una mia teoria al riguardo. Penso che l’imprenditore esprima il massimo del proprio ego tramite l’impresa. Quindi, fintanto che le cose vanno bene è convinto che nessuno sia bravo come lui. E se uno crede di essere il migliore, come fa a riconoscere a un collega di stare sullo stesso livello? Il problema, cioè, è culturale. Quando negli anni ‘70 ci fu uno sviluppo cooperativo importante rispondeva a presupposti culturali molto diversi, a spinte solidaristiche indotte dallo stare male. Oggi mettere insieme imprenditori in preda all’egoismo è molto più complicato.
La carenza di autisti ha accentuato la subvezione?
Non direi. Anzi, la mancanza degli autisti, implicando una riduzione delle macchine e quindi della quantità di servizio offerto dal sistema, nel breve periodo ha rafforzato la forza contrattuale dei trasportatori, perché il cliente quando ha bisogno alla fine paga. E anche gli autisti, in questo frangente, sono indotti a proporsi a imprese solide, che offrono maggiori garanzie in termini di stabilità del lavoro e di qualità del trattamento economico. Il grosso della subvezione, invece, è sulle spalle dei padroncini, di coloro che non hanno mai avuto né organizzazione, né dipendenti. Anche perché non è facile tirare avanti con una tariffa che, partita da 100, quando ti arriva in tasca, dopo tre passaggi di vezione, è scesa – se va bene – a 70. Di conseguenza impone di risparmiare. Cosa che il padroncino fa eliminando i costi del personale e mettendosi alla guida. Insomma, «facendo finta» di costare di meno.
Il Parlamento ha delegato al governo il recepimento di una quarantina di direttive e l’adeguamento dell’ordinamento nazionale a 19 regolamenti europei. Potrebbe essere l’ultima chance per giocarsi la carta della proporzionalità?
La vedo complicata: servirebbe un fronte unitario delle associazioni e invece ci sono troppi interessi divergenti al riguardo. Poi, mai dire mai.
Questo punto merita approfondimento: ha senso tenere insieme nello stesso Albo associazioni che tutelano interessi confliggenti?
È un problema. Riprendiamo ancora (e me ne scuso) il caso BRT. In quella vertenza si aprì un tavolo: su un lato c’era BRT, supportata da Fedit, dall’altro c’erano i fornitori-trasportatori rappresentati da Assotir. Ma Fedit e Assotir stanno entrambe nell’Albo dalla parte delle aziende di trasporto. Con questo voglio dire che il problema delle associazioni non è nel loro numero elevato, ma nel fatto che a volte sono in conflitto di interessi: molte non hanno interesse a garantire una redditività migliore a chi investe sui camion, perché in genere rappresentano imprese che hanno smesso di farlo.
In prospettiva è possibile che, anche in virtù della spinta prodotta dalla certificazione ESG e dagli oneri in capo al committente di dover controllare i suoi fornitori di filiera, si inneschi un processo di internalizzazione?
Non credo. Per la semplice ragione che, al contrario della logistica, difficilmente il trasporto è remunerativo. Non a caso le grandi strutture che internalizzano si rivolgono soprattutto alle funzioni collegate alla logistica, come il facchinaggio e il magazzinaggio. Non guardano alla vezione perché sanno che non paga. BRT, per esempio, rispetto al trasporto continua nella politica dei fornitori esterni, seppure li stia rinnovando. Apparentemente il discorso cambia per importanti operatori marittimi che tendono a coprire l’intera filiera e mostrano un qualche interesse per la vezione su gomma. Credo però che siano tanto operazioni di maquillage. Acquistare 300 camion per MSC è un po’ come per me entrare in un bar e ordinare un caffè. Poi, è chiaro che quei 300 camion li farà lavorare, li utilizzerà per gestire emergenze o per migliorare il servizio alla clientela, ma il grosso del lavoro è ancora affidato a terzi.
Cosa serve allora per produrre un cambio di marcia?
Forse, tra qualche anno, quando il tessuto delle piccole imprese sarà ulteriormente indebolito sia dall’età anagrafi ca degli attori, sia dalle basse remunerazioni e dall’incapacità a far fronte agli investi menti richiesti dalla transizione ecologica, potrebbe accadere che buona parte di queste aziende esca dal mercato. E lì il trasporto potrebbe ridiventare un business su cui investire. Ma gli unici che avranno la forza per farlo saranno pochi big, che avrebbero dalla loro la capacità finanziaria e la forza per dettare le condizioni a un settore, a quel punto ripulito dalla frammentazione odierna che zavorra il gioco della concorrenza. Magari è fantascienza triste, anche perché comporterebbe la fine delle PMI, ma credo che possa diventare realtà per una ragione molto semplice: il trasporto è in ogni caso strategico. Perché di tutto si può fare meno, tranne che di far viaggiare le merci sui camion.
Questo articolo fa parte del numero di marzo/aprile 2025 di Uomini e Trasporti: un numero che contiene un’ampia inchiesta sul fenomeno della subvezione nell’autotrasporto, con numeri, approfondimenti e voci dal settore.
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