È lui il protagonista di questi tempi. La rivista americana Time gli dovrebbe dedicare una copertina, l’Accademia reale svedese delle scienze dovrebbe conferirgli un Nobel per la medicina, dovrebbero fare un film su di lui per assegnarli l’Oscar o un libro per attribuirgli il Pulitzer. Perché da quando è scoppiato il Covid-19, lui è presente in quasi tutti i prodotti («presidi medico-sanitari») per contrastare la diffusione del virus distruggendolo sulle nostre mani, sugli oggetti che usiamo quotidianamente, sui mobili, sui veicoli, sugli oggetti.
Che lo si chiami «igienizzante», «disinfettante» o «sanificante», dentro (in diverse quantità) c’è sempre lui, contendendo il primato della produzione all’ipoclorito di sodio, ma surclassandolo, perché facile da reperire e di basso costo. Il fatto è che – timido, schivo e modesto – si nasconde, quasi rifiutando ogni forma di pubblicità, e la sua presenza non appare, se non in caratteri minuscoli, nelle scritte sui flaconi di gel o sulle bottiglie di spray e con un nome che spesso non dice nulla: «etanolo». Ma è sempre e soltanto lui: semplicemente l’alcol.
Come e quanto se ne produce
Ricavabile per sintesi chimica o dalla fermentazione degli zuccheri (ma solo quest’ultimo è adatto al consumo alimentare), l’alcol è presente – oltre che nelle bevande alcoliche – nei cibi confezionati come conservante, nei profumi, nelle lacche per capelli, nei solventi, nelle vernici, negli inchiostri e chi più ne ha più ne metta. E, appunto – per la sua capacità di uccidere i microorganismi, compresi i virus – negli igienizzanti (almeno il 60% di alcol) e nei disinfettanti (almeno il 75%) che nell’ultimo anno hanno fatto schizzare alle stelle la produzione e i consumi del settore.
Dati precisi non ce ne sono, a causa della vastità degli impieghi dell’alcol, ma solo nel 2019 di quello di origine agricola ne sono stati prodotti in tutto il mondo 1 miliardo e 280 milioni di ettanidri, cioè 128 miliardi di litri. In Italia di ettanidri ne sono stati ricavati poco più di un milione; un altro paio di milioni ne sono stati importati per un fabbisogno di 3 milioni di ettanidri (300 milioni di litri).
Un fabbisogno – in attesa delle statistiche – certamente aumentato nel 2020, anche se numerose imprese produttrici di bevande alcoliche hanno rapidamente virato sui disinfettanti per smaltire il surplus di alcol che si trovavano in casa e che, con bar e ristoranti chiusi, non avrebbe trovato sbocchi sul mercato alimentare. Tant’è vero che molti marchi famosi hanno usato il loro alcol per prodotti gratuiti. La lista è lunga e prestigiosa: all’estero nomi come Bacardi, Pernod Ricard Usa e Luis Vuitton che controlla altisonanti marchi di champagne (Krug, Veuve Cliquot, Dom Pérignon) e di cognac (Hennessy). In Italia basta citare Nardini (grappe) che ha lanciato un igienizzante tascabile nebulizzabile, come omaggio per ospedali e clienti, mentre Assodistil, l’associazione dei produttori italiana di bevande alcoliche (una sessantina di aziende), ha aperto la strada anche ai piccoli produttori, chiedendo e ottenendo l’autorizzazione dai Monopoli a «denaturare» l’alcol alimentare (la denaturazione lo rende imbevibile e lo esenta dall’accisa che grava sulle bevande alcoliche).
Un indicatore che aiuta a capire le dimensioni del fenomeno è in un comunicato dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli che, senza farne il nome, segnala che in «un’opificio di denaturazione dell’alcool, tra i più importanti d’Italia» sono stati «denaturati 77.301.772,00 litri di alcool etilico nel 2020, segnando un incremento di produzione del 58,40% rispetto al 2019».
Una coop da 40mila viaggi “alcolici” all’anno
Fiumi, mari, oceani di alcol, insomma, che circolano sulle strade italiane a bordo di veicoli dedicati come quelli della SAR Trasporti di Ravenna, 120 mezzi tra cisterne chimiche, cisterne alimentari, cisterne silo e poracontainer. «Ne trasportiamo migliaia di tonnellate l’anno», afferma Franco Fogli, general manager del consorzio. «Sono circa 40 mila viaggi», aggiunge. Un tipo di trasporto delicato, sottoposto al rigoroso regime dei materiali pericolosi, con veicoli omologati ADR. «Le cisterne per prodotti chimici alimentari», spiega Fogli, «hanno caratteristiche leggermente diverse da quelli per i prodotti chimici non alimentari. Ma l’unica vera differenza è che una cisterna alimentare può diventare chimica, ma non viceversa». Poi c’è il problema del carico e dello scarico, che ha modalità diverse a seconda degli impianti di cui sono dotati gli stabilimenti di produzione e quelli di consegna: alcuni caricano dall’alto, a caduta, altri dal basso, a pressione o con pompe.
Sono tutte procedure alle quali in SAR sono abituati, forti anche di una decina tra certificazioni di qualità, codice etico e autorizzazioni istituzionali. La pandemia e il lockdown hanno solo incrementato il trasporto di questi prodotti. «Gli alcoli», riconosce Fogli, «hanno sopperito in parte al rallentamento dell’attività complessiva». In attesa di poter brindare alla fine della pandemia. In fondo, sempre di alcol si tratta.
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