Il settore energetico, e più in particolare quello legato al petrolifero, è molto reattivo nel prendere le distanze dalla Russia. L’elenco delle società indietreggianti da Mosca è molto lungo. Proviamo a passarlo in rassegna.
British Petroleum PB
Partiamo con la British Petroleum BP, il cui consiglio di domenica 27 febbraio ha preso la decisione di uscire dal capitale di Rosneft, una società di cui deteneva il 19,75% già da nove anni. Una decisione che ha comportato anche l’uscita dal consiglio di amministrazione di Rosneft sia dell’amministratore delegato di BP, Bernard Looney, sia dell’altro consigliere di nomina della società britannica, vale a dire l’ex AD del gruppo BP, Bob Dudley. Una decisione anche costosa, visto che lascerà segni negativi sui risultati del primo trimestre 2022, attesi per maggio.
D’altra parte, ha spiegato il presidente Helge Lund, seppure «BP opera in Russia da oltre 30 anni, lavorando con brillanti colleghi russi, tuttavia, questa azione militare rappresenta un cambiamento fondamentale». E quindi «dopo un processo approfondito, il cda ha concluso che il nostro coinvolgimento in Rosneft, che è un’impresa statale, semplicemente non può continuare».
Shell
Nemmeno 24 ore dopo anche Shell ha preso una decisione se possibile ancora più drastica. Il 28 febbraio ha fatto sapere di essere sul punto di vendere le proprie partecipazioni in tutte le joint venture attive con Gazprom, compresa una quota del 27,5% detenuta nel progetto Sakhalin-2, finalizzato all’estrazione di gas sull’isola di Sakhalin, nella Russia dell’Est, un’altra relativa a un altro progetto con analoga finalità contestualizzate nella penisola di Gydan e una quota del 50% nella società che gestisce il giacimento petrolifero di Salym in Siberia.
ENI
Il giorno successivo la scena si ripete in casa Eni, che decide di voler vendere la propria quota, pari al 50%, del gasdotto Blue Stream (l’altro 50% è di proprietà del colosso russo Gazprom) finalizzato a collegare Russia e Turchia tramite il mar Nero. E poi la stessa società ha tenuto a precisare che, rimosso tale legame, gli altri fili rimasti sospesi sono praticamente congelati. E qui il riferimento era soprattutto alla relazione con la già citata Rosneft, con cui era stata costituita una joint venture legata alle esplorazioni dell’Artico, ma di fatto non più attiva da tempo. In particolare dal 2014 quanto era partita la precedente stagione di sanzioni a seguito dell’occupazione della Crimea.
TotalEnergies
Dall’Italia spostiamo alla Francia. Perché il 1° marzo giungeva da Parigi uno stringato comunicato di TotalEnergies in cui, oltre alla condanna dell’aggressione militare russa contro l’Ucraina, si puuntualizzava che la società si sarebbe mobilitata per fornire carburante alle autorità ucraine, che avrebbe chiuso i flussi finanziari mirati a sviluppare nuovi progetti in Russia e che avrebbe sostenuto «la portata e la forza delle sanzioni messe in atto dall’Europa» per «attuarle indipendentemente dalle conseguenze (attualmente in fase di valutazione)» rispetto alle sue attività in Russia.
ExxonMobil
Dagli Stati Uniti, più precisamente dal Texas, ExxonMobil diffonde un comunicato in cui sostiene di «rispettare pienamente tutte le sanzioni». Poi puntualizza che gestisce il progetto Sakhalin-1 per conto di un consorzio internazionale di società giapponesi, indiane e russe e di aver avviato «il processo per interrompere le operazioni e sviluppare misure per uscire dall’impresa».
Poi la conclusione laconica per sottolinea che «ExxonMobil non investirà in nuovi sviluppi in Russia».
Petronas
In parte fuori dal coro la posizione di Petronas che per ora ha sostenuto di non voler prendere delle decisioni affrettate. Il riferimento qui riguarda la collaborazione che lega la società malese alla compagnia petrolifera Gazprom, con cui – ha dichiarato il presidente e amministratore delegato del gruppo Datuk Tengku Muhammad Taufik Tengku Aziz – «abbiamo una collaborazione in Iraq», facendo riferimento alla partecipazione non operativa nel giacimento di Badra che ha prodotto 3,8 milioni di tonnellate di petrolio nel 2017. Poi ha anche ricordato che Petronas aveva una joint venture con la compagnia petrolifera e del gas Lukoil, relativamente al progetto Shah Deniz in Kazakistan, ma l’ha venduta allo stesso partner per 2,25 miliardi di dollari.
Repsol
Altra notizia, seppure di altro tenore, riguarda Repsol che gestisce una piattaforma nell’arcipelago di Orkney, di fronte alla Scozia, dove sarebbe dovuta giungere una petroliera statale russa. Ma siccome il Regno Unito ha di fatto bloccato l’accesso di navi russe nei porti del Paese, anche la Repsol Sinopec Resources UK ha deciso di non utilizzare più questa petroliera.