La carenza di semiconduttori non mette in difficoltà soltanto la produzione automobilistica, ma rischia di rallentare vistosamente anche quella di camion. Nei giorni scorsi è stata Volvo Trucks ad annunciare di aver deciso di osservare dei «giorni di stop in tutte le sue linee produttive». Più precisamente nel corso del prossimo trimestre l’interruzione varierà tra le due e le quattro settimane con conseguenze impattanti sulle consegne dei veicoli. D’altra parte, puntualizza il costruttore svedese, la «catena di approvvigionamento globale dei semiconduttori, così come di altri componenti, è attualmente molto bassa e l’incertezza in prospettiva molto alta».
Ma come detto il problema non è ovviamente di Volvo Trucks. Anche Volkswagen hanno annunciato il contenimento della produzione nel prossimo autunno per mancanza dei fantomatici chip. Ford ha programmato uno stop della produzione per una settimana sulle linee su cui si assemblano i suoi pick-up F-150. General Motors ha sospeso la produzione per una settimana in tre impianti di camion del Nord America, mentre Nissan l’ha fermata per due settimane in un impianto del Tennessee. Toyota ha addirittura quantificato la contrazione di settembre in un 40%. Peraltro, il tutto avviene in un momento di mercato estremamente favorevole, con una forte domanda di veicoli. Di conseguenza, la difficoltà a ottenere mezzi nuovi in tempi ristretti sta provocando un’impennata di circa il 15% dei prezzi dell’usato, con punte in alcuni mercati e rispetto ad alcuni segmenti (uno per tutti: il cava-cantiere nel mondo dei camion) molto più alte.
Il perché della carenza
Dietro questa problematica si nasconde un mix di concause, che partono con l’esplosione della pandemia e persistono – sempre muovendosi attorno al virus – ancora oggi. Il primo fattore da prendere in considerazione è innanzi tutto il valore e il peso dei microchip su un veicolo. È stato calcolato che se circa vent’anni fa l’insieme di questi componenti presenti su una vettura valevano circa 120 euro, adesso hanno moltiplicato il loro peso per cinque e nei prossimi anni andrà ancora aumentando, perché servono a far funzionare sempre più sistemi e accessori del mezzo. Il problema è che nel momento in cui il mercato dell’automotive si è fermato all’inizio della primavera del 2020, tutti i produttori di microchip si sono rivolti all’altro grande mercato assetato degli stessi componenti, quello cioè dell’elettronica di consumo, che peraltro nello stesso frangente invece che flettere tendeva a salire. Con la conseguenza che adesso che la produzione di veicoli è nuovamente tornata a salire, la stessa torta di microprocessori va spartita su più tavoli.
Ma se poi, com’è avvenuto nelle scorse settimane uno dei principali siti produttivi della tedesca Infineon, situato in Malesia, è stato costretto alla chiusura a causa di un focolaio di Covid-19, ecco che l’equilibrio precario del sistema salta. Senza considerare che lo stesso amministratore delegato di Infineon, Reinhard Ploss, ha dichiarato che sarà necessario l’intero 2022 per rimettere in equilibrio la domanda e l’offerta nel settore.
A tutto questo va anche aggiunto che, sempre a causa di un contagio da Covid, pochi giorni fa ha anche chiuso il terminal di Ningbo, il terzo porto più grande al mondo, innescando un ulteriore ritardo nelle spedizioni e l’ennesima impennata dei prezzi nel trasporto container. E per forza di cose all’interno dei contenitori bloccati sono rimasti anche tanti semiconduttori. Senza considerare che per l’ennesima volta da quando è iniziata la pandemia i container vuoti e la navi per caricarli si trovano bloccati in posti estremamente distanti, mettendo letteralmente in ginocchio non soltanto la filiera del trasporto marittimo, ma soprattutto quei settori che – automotive in testa – sono perfettamente organizzati come un orologio, sulla base di una produzione che si alimenta giorno per giorno e che rischia di ripiegarsi su se stessa nel momento in cui qualcosa non va come previsto. Per capire cosa implichi tutto questo in termini pratici è sufficiente entrare in una concessionaria e ordinare un veicolo: nessuno – tranne chi ottimisticamente tende a mentire – vi riesce a programmare una consegna in maniera puntuale.
Bosch e Taiwan, due ancore di salvezza
Un’àncora di salvezza a livello mondiale sembra essere Taiwan, unico paese in cui la produzione non soltanto marcia, ma ha visto un’autentica impennata nel corso degli ultimi mesi. Al punto che tre senatori democratici del Parlamento degli Stati Uniti (Gary Peters, Debbie Stabenow e Sherrod Brown) hanno scritto al governo del piccolo Stato asiatico sia per apprezzarne l’impegno profuso nei mesi scorsi, sia per richiedere un sostegno straordinario ai produttori di chip. Ipotizzare che possa essere sufficiente è soltanto una vana speranza.
Molto più concreto sembra essere l’annuncio di Bosch di aver completato con sei mesi di anticipo la fabbrica di microchip a Dresda e di essere quindi in condizione di consegnare le prime forniture già entro settembre. Alla cerimonia di inaugurazione, a cui hanno partecipato virtualmente anche la cancelliera Angela Merkel e la vice presidente della Commissione europea Margrethe Vestager, il Ceo Volkmar Denner ha quantificato l’investimento necessario per realizzare il nuovo impianto in circa un miliardo di euro e lo ha definito «il più grande investimento singolo negli oltre 130 anni di storia di Bosch».