Nel 2019 in Italia erano in funzione 10 raffinerie. Soltanto 10 anni prima, ce n’erano 16 con una capacità di raffinazione di poco superiore ai 100 milioni di tonnellate/ anno. La progressiva chiusura degli impianti è stata causata da una crisi di sovrapproduzione a fronte di un fabbisogno nazionale di 80 milioni di tonnellate/anno, che aveva ridotto i margini del settore a livelli non competitivi. Ma non basta a spiegare quel che è accaduto.
Intanto bisogna ricordare che il 2009 è anche l’anno di inizio della crisi economica che ha portato a un calo generalizzato dei consumi, a cominciare da quelli petroliferi. Nel 2011 un’indagine della commissione Attività produttive della Camera dei Deputati rilevò che il sistema della raffinazione era in crisi per la «progressiva riduzione dei consumi in Europa, che decrescono al ritmo del 2% medio annuo a partire dal 2005, conseguenza della bassa dinamica demografica, della crescente efficienza energetica e dell’introduzione dei biocarburanti» e prevedeva che il calo dei consumi petroliferi era «destinato a peggiorare», anche a causa della «forte concorrenza delle nuove raffinerie dei paesi extra-Ue, sostanzialmente prive di obblighi e vincoli ambientali e spesso sussidiate direttamente dallo Stato».
Poco più di 10 anni dopo, la situazione è completamente cambiata: la fine della pandemia ha fatto esplodere la domanda, mentre le sanzioni per la guerra in Ucraina – che dal 5 febbraio colpiscono i prodotti raffinati provenienti dalla Russia – rischiano di ridurre l’offerta. Ma, mentre l’embargo sul petrolio russo non sembra preoccupare, dal momento che il greggio di Mosca, l’Ural, è di qualità più scadente del Brent e l’industria petrolifera europea non l’ha mai amato troppo, l’esplosione della domanda di prodotto raffinato ha già conseguenze visibili a livello mondiale, con attese di uno o più giorni per fare il pieno o con razionamenti del carburante anche in paesi dell’Africa o del Medio Oriente che pure sono produttori di petrolio.
Importazioni di dubbia provenienza
In questo scenario in mutamento quel che non è cambiato è la progressiva chiusura degli impianti italiani (ed europei) che ci espongono al rischio di importazioni di prodotti raffinati di bassa qualità. Salvatore Carollo, analista del settore, scriveva poco più di un anno fa, sulla rivista Energia, che «la chiusura di molti (troppi) impianti di raffinazione negli ultimi decenni ha decimato la capacità di raffinazione europea e ha ridotto quella italiana al di sotto del minimo indispensabile. Il risultato, soprattutto in Italia, è la crescente importazione di prodotti petroliferi (di scadente qualità) dai cosiddetti mercati internazionali». E, quanto alla provenienza, ricordava che «in passato abbiamo visto che il greggio prodotto nelle province irachene occupate da Al Qaeda ed esportato attraverso la Turchia raggiungeva alcune raffinerie della Libia (in guerra) e di alcuni paesi dell’ex URSS, dove veniva raffinato e trasformato in prodotti petroliferi. Questi prodotti hanno spesso raggiunto il mercato italiano mescolati con altri prodotti raffinati in modo legale e trasparente nelle stesse raffinerie».
Se ci siamo ridotti così non è solo colpa nostra: tra il 2005 e il 2015 la lavorazione delle raffinerie europee si è ridotta di 1,7 milioni di barili/giorno. E la citata indagine della commissione della Camera non poteva nascondere «che le nuove regole introdotte dall’Ue in materia di efficienza energetica hanno avuto un forte e negativo impatto sulle raffinerie europee, mettendo a rischio il mantenimento di questa industria in Europa».
Investimenti a lungo termine
È un problema di investimenti. Nella raffinazione c’è bisogno, per la complessità degli impianti, di programmare a tempi lunghi. I progetti europei di espulsione dal mercato dei motori endotermici a breve-medio termine non incoraggiano le imprese a mettere soldi in questo settore. «Abbiamo cicli di investimento di 6-7 anni», spiega Claudio Spinaci, presidente dell’Unione energie per la mobilità (Unem).
«Se le nostre imprese smettono di investire oggi, al 2035 i nostri impianti non ci arrivano. Chiudiamo prima. Con una doppia beffa: da una parte il Paese non avrà il petrolio da raffinare in prodotti di cui ha ancora bisogno, dall’altra tanti posti di lavoro persi». Quanti? Quasi tutti, secondo Spinaci, per un settore che occupa 21 mila dipendenti diretti e 150 mila indiretti, per un fatturato annuo di 100 miliardi.
L’alternativa è una strategia energetica che tenga conto di un diverso sbocco per la raffinazione. A chi gli fa osservare che un motore endotermico a zero emissioni non è vicino (si parla di 40-50 anni), Spinaci ha buon gioco a rispondere «Perché forse non ci sono ostacoli da risolvere sulla strada della mobilità elettrica? Eppure, in quell’ambito si dà per scontato che tutto si possa risolvere. Resta il fatto che il nostro settore è a un bivio. Chi vuole restare in campo deve passare a impianti in grado di gestire materie prime diverse. E questo richiede miliardi di investimenti».
Infatti, la raffineria Eni di Livorno, quelle di Porto Marghera (Venezia) e di Gela (Caltanissetta) hanno scelto la via della riconversione bio: la prima lavorerà plastiche dure per trasformarle in biometanolo, le altre due trasformeranno materie prime di origine biologica in biocarburanti di alta qualità.
D’altra parte, se l’Unione petrolifera ha sentito il bisogno di cambiare nome in Unione energie per la mobilità, sarà pure il momento di scegliere la strada di una produzione più aderente al nuovo nome.