Fino ad aprile inoltrato bisogna attendersi forti contrazioni per i traffici mondiali. Poi, forse, inizierà il contraccolpo. È questa la previsione che si leva dell’universo della logistica rispetto alle conseguenze che teoricamente potrebbe produrre la diffusione del coronavirus (o covid19, com’è stato ribattezzato) sulla supply chain mondiale. A prescindere infatti dalla contrazione dell’economia, quantificata in un ottimistico -0,1% del Pil globale dal G20 di Riad (il Pil italiano, invece, partendo dalla previsione di un +0,6% dovrebbe subire, secondo i calcoli del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, una frenata dello 0,2%), il problema diventa quello di una stasi della produzione. D’altra parte, per quasi un mese i siti industriali di molte delle principali regioni produttive della Cina sono rimasti fermi e adesso sono tornati a girare con ritmi intorno al 50-60% e soltanto alla fine della prima settimana di marzo si dovrebbe tornare – sempre che le previsioni in quest’ambito abbiano un significato – vicini al 90%.
Siccome però l’80% degli scambi di merci a livello globale si muove via mare e siccome nella classifica dei primi dieci porti per traffico container su scala globale ci sono ben sette cinesi, i problemi che si stanno creando sono di due ordini:
– il primo è quello dell’approvigionamento di alcuni distretti europei, che si alimentano di componentistica prodotta in Cina e che quindi sono fortemente in crisi;
– il secondo riguarda il rallentamento delle attività logistiche sostenute da flussi in arrivo o in partenza dai porti cinesi.
L’andamento nei porti: in Italia…
Quest’ultimo fenomeno, peraltro, funziona in maniera bidirezionale. Nel senso cioè che nei nostri porti ancora per un po’ stanno arrivando merci spedite prima dell’emergenza virale, soltanto che già da diversi giorni il ritmo di recepimento di queste merci è divenuto molto più lungo a causa di controlli sanitari più attenti e approfonditi. Tra qualche giorno, invece, dovremmo cominciare anche a risentire di una riduzione dei container indotta dal rallentamento produttivo. Secondo stime calcolate da Trasportounito questa flessione, valutata nel complesso dei traffici in partenza della Cina e in arrivo in Europa, dovrebbe essere superiore al 30%, per attestarsi invece nell’ordine del 20% sul porto di Genova.
…e in Cina
Se invece si guarda il fenomeno dal punto di vista cinese Cina, la situazione appare già oggi particolarmente critica. L’amministratore delegato di Maersk, Soren Skou, rilasciando la scorsa settimana interviste a giornali di tutto il mondo, denunciava le difficoltà esistenti in questo momento sui porti cinesi a causa della mancanza di personale addetto allo scarico e alla movimentazione dei container, ma anche di autisti che si rechino nei porti a prelevare il cassone per portarlo alla destinazione finale. E siccome sta diventando sempre più «complicato ricevere merce nelle fabbriche e nei magazzini», lo stesso colosso danese ammette di aver «cancellato almeno 50 carichi dalla Cina nelle ultime due settimane». Ancora più critica è la situazione sui container frigoriferi, rispetto ai quali MSC ha denunciato criticità relative alle fonti energetiche. Ma soprattutto una serie di porti, quali Shanghai, Xingang, Tianjin e Ningbo, non hanno più capacità di ricevere merci e di conseguenza stanno segnalando alle compagnie di spostarsi in altri scali (per esempio, in Vietnam, in Malesia o a Taiwan) e, sempre di conseguenza, le stesse compagnie stanno ritoccando i prezzi a causa di tali disguidi di circa un migliaio di dollari per container, mentre i tempi di consegna diventano assolutamente aleatori. Perché quando un container frigo diretto nella regione di Shangai giunge per esempio in Malesia, poi da qui deve attendere per giorni e giorni uno slot per potersi reindirizzare verso la destinazione finale. Senza considerare che lo stesso container, una volta giunto a Shangai, deve affrontare – come detto – il difficile compito di trovare qualcuno che lo scarichi in fretta e qualcun altro che lo porti via terra a destinazione. Peraltro, tale rarefazione nelle consegne comporta pure una totale mancanza di refeer vuoti in uscita dalla Cina e, quindi, determina pure una fortissima difficoltà per alcuni paesi (in particolare quelli sudamericani) a esportare verso questo paese. D’altra parte, secondo il CEO di Seatrade, Yntze Buitenwerf, «se tutti i porti in Cina fossero pieni di container refrigerati, ce ne sarebbero 120.000, mentre il numero totale dei container refrigerati, in tutto il mondo, va da circa 1,5 a 1,6 milioni. Questo significa che, sulla base di queste cifre, circa l’8% dei container refrigerati sono scomparsi dal mercato a causa del blocco, mentre il carico, ad esempio l’ortofrutta, spesso si trova ancora nel container».
Non meno di due mesi per un contraccolpo
Sia Yntze Buitenwerf, sia Soren Skou, peraltro, sono concordi nell’ipotizzare una possibile inversione di tendenza tra non meno di un paio di mesi, mentre Frode Morkedal, amministratore delegato della Clarksons Platou Securities, si dice addirittura timoroso sul fatto «che le esportazioni di container dalla Cina possano essere significativamente turbate più a lungo e che quindi tutte le previsioni potrebbero rilevarsi relativamente ottimistiche».
In più non bisogna dimenticarsi di una cosa: il coronavirus, come abbiamo già rilevato, si innesta in un contesto economico che, soprattutto per quanto riguarda il traffico container, era stato già sottoposto a diverse perturbazioni, determinate per un verso dalle tensioni commerciale tra Usa e Cina e per un altro da un eccesso prolungato di offerta. Senza considerare che a condizionare l’andamento del mercato e in particolare quello dei prezzi dei noli c’è stata anche l’introduzione, imposta normativamente alle navi, dei carburanti a basso tenore di zolfo.
A quanto ammonterà il latte versato?
La stima non è facile. Si può ragionare per approssimazione stabilendo delle comparazione con altri fenomeni analoghi. Consideriamo per esempio la Sars: nel 2003 determinò la stasi del 4% delle imprese cinesi, provocando perdite economiche per 25,3 miliardi. Oggi, secondo stime accreditate, le aziende messe completamente fuori gioco sarebbero circa il 16% e quindi, facendo i conti della serva, quei 25 miliardi dispersi dalla Sars dovrebbero diventare almeno un centinaio. Se così fosse, considerato che il Pil cinese viaggia sui 13.000 miliardi, equivarrebbe a una flessione dello 0,8% del Pil.
Quanto vale l’Italia in isolamento
Il conto anche qui può essere fatto soltanto per approssimazione. La cosa certa è che, stando ai calcoli di Repubblica, il comprensorio tra Codogno e Casalpusterlengo fattura qualcosa come 1,5 miliardi all’anno. Quindi, una volta isolato, brucia ogni giorno circa 4 milioni di entrate, che toccherebbero quota 18 milioni calcolando l’intera provincia di Lodi.
Poi ovviamente ci sono i danni indotti sul sistema, sia nazionale che regionale. Ma qui ovviamente il conto diventa molto più complesso, così com’è più complesso quello relativo all’area di isolamento del Veneto, perché meno significativo a livello economico, ma sicuramente importante in termini di indotto regionale.
D’altra parte Lombardia e Veneto rappresentano più del 30% del Pil italiano e il 40% delle aree di esportazione. Ecco perché qualcuno ha valutato che alla fine dell’emergenza mancheranno all’appello circa 40 miliardi di euro rispetto a un Pil che complessivamente ne sviluppa 2.000.