Alberto Collini ci ha lasciato e adesso – come amava ripetere – starà discutendo da qualche parte «con il biondo» per mettersi d’accordo su chi realmente comanda. Perché Collini di stare in seconda fascia non ne voleva sapere. Per tutti, in Federtrasporti e non solo, era sempre stato «il presidente», ruolo che in effetti, all’interno di questo raggruppamento di imprese sorto nel 1971 anche tramite la sua iniziativa, aveva ricoperto per lunghi decenni a partire dal 1985. E del presidente Collini aveva la determinazione e il fisico: alto, atletico e possente. Nei convegni, nelle assemblee, nelle cene aziendali, lui dominava la scena: si impossessava del microfono e non lo lasciava più. E parlava, a volte anche per ore, trasmettendo carisma e autorevolezza e trovando sempre una maniera per interpretare a modo suo anche quelle piroette che la storia gli faceva davanti. Celeberrime le sue interpretazioni dell’economia globalizzata e di come anche lo slancio aggregativo avrebbe dovuto dotarsi di una dimensione sempre più allargata.
Perché alla fine questo toscano dagli occhi azzurri e la voce vigorosa aveva sempre una visione: sapeva perfettamente da dove veniva e aveva chiaro in testa dove sarebbe voluto arrivare. Disponeva cioè per un verso della memoria storica, del ricordo delle vicende che avevano segnato la sua vita e quella dell’intero autotrasporto italiano. Ma immaginava chiaramente il percorso da seguire per giungere alla destinazione finale, che era ovviamente quella di contare di più unendo le forze, le passioni, le energie.
Nell’ultima intervista che ha rilasciato a Umberto Cutolo in occasione dei 50 anni della Federtrasporti, pubblicata circa un anno e mezzo fa nell’ultima edizione dei «100 Numeri per capire l’autotrasporto», lo diceva a chiare lettere: «Da soli non si va da nessuna parte». Una verità che Collini aveva appreso presto nella vita e poi gli era apparsa negli anni sempre più evidente dopo ogni chilometro percorso. Ecco perché ci è sembrato il tributo migliore, il più autentico e il più completo, riproporvi ampi passaggi di quella chiacchierata. Dentro c’è tutto: la sua vita, il suo lavoro, i suoi sogni.
«Da soli non si va da nessuna parte»
«Ci è passato un visibilio di acqua in questo fiume della mia vita». Forse la frase più efficace per descrivere in poche parole Alberto Collini l’ha pronunciata proprio lui, a conclusione di questa intervista che aveva l’assurda pretesa di raccontarlo, questo «visibilio di acqua»; di ripercorrerlo insieme a lui, questo «fiume della sua vita»; di tradurla in un numero comunque insufficiente di parole, questa storia emblematica di uno dei tanti giovani che, usciti dalla seconda Guerra mondiale pieni di idee, di energia e di voglia di lavorare hanno costruito negli anni successivi l’ossatura dell’Italia, procurandole un’epoca di tranquillo benessere.
In quei giorni, del resto, muoversi in un settore come l’autotrasporto, subito determinante per la Ricostruzione, era come trovarsi nell’ombelico del mondo, con quell’andare su e giù per il Paese – la mattina da una parte, la sera da un’altra – senza fermarsi mai, in un moto perpetuo che divorava i giorni come i chilometri che si snodavano davanti al camion, trasformandoli in storia. Perché quel cambiare luogo in continuazione era anche scambio culturale, stimolo alla crescita, occasione di sviluppo. E la curva sulla strada non era poi tanto diversa dalla svolta che ogni tanto bisogna dare alla propria esistenza per imboccare la via giusta. È quello che hanno fatto tanti autotrasportatori partiti dal primo camion – spesso un residuato bellico – e cresciuti fino a creare imprese di grandi dimensioni. È quello che ha fatto, in quel «fiume della sua vita», anche Collini, che ancor oggi, quando ne parla, è un torrente impetuoso di racconti, di storie, di episodi, lui che ha passato i novant’anni, ma con i camion aveva avuto a che fare ancor prima di nascere.
Dai motori alla guerra
Aveva cominciato il padre, Gino, meccanico motorista, appena tornato a casa, a Firenze, dalla Grande Guerra, aprendo un’officina, frequentata da un ingegnere di nome Brini, proprietario di macchine da corsa e di un camion un Fiat 18 BLR, un modello largamente usato dall’Esercito nel corso del conflitto per la sua solidità, ma comunque un residuato bellico, malridotto dall’usura e spremuto a fondo dai militari, che aveva continuamente bisogno di riparazioni.
«Gli aveva tolto il sangue a tutti e due», ricorda oggi Alberto, ma aveva saldato una bella amicizia, tant’è che Gino, quando nasce il suo primo e unico figlio, il 28 giugno del 1929, a Firenze, decide sarebbe diventato ingegnere come il suo amico.
Fu la guerra a cambiare tutto. Un bombardamento distrusse l’istituto tecnico a Campo di Marte, dove Alberto studiava, costringendo lui e i suoi compagni prima a migrare qua e là presso scuole diverse. E Poi nel 1943, a 14 anni, appena ottenuta la licenza di terza professionale, a «scappare per evitare le deportazioni che da noi», racconta, «erano paurose anche per i ragazzi». Finché, il 9 agosto del 1944, arrivano gli inglesi della V Armata di Bernard Law Montgomery che cercano volontari: niente soldi, lavoro in cambio di cibo. È una svolta, la prima di tante. Alberto accetta e subito gli si presenta un’occasione. C’è da guidare un Bedford per la distribuzione dell’acqua. Il ragazzino si fa avanti. Non ha ancora 16 anni né la patente, ma tra i motori ci è nato e, in tempo di guerra, è più che sufficiente.
Quelle 280 am-lire
Quando, dopo pochi mesi, gli inglesi se ne vanno, Alberto ha già avuto modo di fare amicizia con il capitano e, prima che le truppe lascino Firenze, prende il coraggio a due mani e gli chiede di essere pagato – lui e i suoi compagni – per il lavoro svolto. Il capitano sorride, il compenso non è previsto per i volontari, ma di Am-lire, le banconote stampate dalle truppe alleate – tutte attaccate l’una all’altra, in rotoli simili a quelli dell’attuale Scottex – ce ne sono in abbondanza. Il capitano srotola, srotola e guarda ridendo Alberto che ormai ci ha preso gusto e insiste: «Signor capitano, lo tiri ancora un po’ più giù questo rotolo». Alla fine, quando, tornato di corsa a casa, si chiude nella sua cameretta a contare le banconote, si ritrova con 280 Am-lire. «Furono la tragedia della mia vita», ricorda oggi ammiccante, «perché con quei soldi mi misi in società con un amico camionista, Antonio Lapi, che aveva un residuato americano, un GMC a tre assi, e così ho cominciato a fare il trasportatore». E mostra, orgoglioso, il documento della Camera di Commercio che conserva gelosamente tra i suoi ricordi più cari. È datato 1946. La patente per il camion l’avrebbe presa l’anno dopo, ma intanto si metteva al volante là dove era sicuro che non ci fossero controlli.
A novembre del 1949 lo chiamano a fare il militare … e quando torna a casa, nel 1951, si accorge che qualcosa sta cambiando, sente nell’aria il boom che è alle porte. Così con i soldi incassati dalla cessione della sua quota a Lapi, si mette in proprio. I consumi di petrolio continuano a salire nell’Italia della Ricostruzione: a fine decennio toccheranno i 20 milioni di tonnellate e supereranno i 100 alla fine degli anni Settanta. Alberto coglie l’occasione: passa dal cassonato alla cisterna e in capo a un paio di anni ne ha già tre e un solido contratto con la OZO Italia, società milanese di proprietà della francese Omnium Française des Petroles che ha rilevato la raffineria di Mantova, la prima costruita nella pianura padana, e opera con i marchi Aquila, Total e – appunto – OZO. A introdurlo nell’ambiente è il marchese Luigi Ridolfi, un vulcanico personaggio che, coniugando l’imprenditoria (petrolifera) con lo sport, ha fondato la Fiorentina calcio, ha costruito lo stadio a Campo di Marte (che ancor oggi porta il suo nome), ha inventato il Maggio musicale fiorentino, è stato presidente della Federazione calcio e della Federazione atletica. E ha creato la società sportiva Assi Giglio Rosso a cui il giovane Collini è iscritto.
Nasce il RAT
Nonostante il settore in crescita e il sostegno di Ridolfi, tuttavia, è ancora duro fare autotrasporto in quegli ultimi anni Cinquanta. «Era una guerra continua», racconta Collini, «perché quando c’era un pezzetto di lavoro buono, era peggio di ora. Per accaparrarselo, ti veniva addosso tutto il mondo». E, dunque, ancora una volta, Alberto sceglie la strada del cambiamento. E che cambiamento! «Avevo solo 28 anni e mi dissi: ma dove vado con questi tre camion? Se resto così, non vado da nessuna parte. Devo mettermi con qualcuno per pesare di più sul mercato». L’impresa non era facile in un mondo in cui la concorrenza era spietata e la cooperazione guardata con sospetto, ma – incoraggiato anche da committenti che si chiamano Gulf, Aquila, Fina, Texaco e Coltex – nel 1963 riesce a mettere insieme una decina di colleghi e costituisce il RAT, Raggruppamento autotrasportatori toscani, cooperativa con undici cisterne in tutto, di cui diventa presidente. «Iniziammo a lavorare subito», ricorda, «e alla fine del primo anno avevamo già 60-70 cisterne. Ma dato che avevamo stabilito che i soci della cooperativa non potevano aver più di un veicolo ciascuno, fui costretto a vendere due dei miei tre veicoli».
Siamo negli anni Sessanta, un’epoca d’oro per le agenzie di intermediazione che intercettavano il lavoro di un’industria sempre più effervescente e lo distribuivano a una pletora di padroncini non ancora in grado di muoversi autonomamente. «Nelle agenzie c’era gente in gamba», ammette Colini, «ci facevano lavorare bene. Ma sempre più spesso i clienti, i direttori, i capi deposito ci dicevano: ma perché non lavorate direttamente per noi? Uno in particolare ci fece una proposta concreta: se ci portate 15 macchine, anziché le 10 che ci portate adesso, noi facciamo il contratto direttamente a voi e vediamo quanto ci guadagnate. Così scoprimmo che le agenzie si trattenevano il 20% della tariffa e decidemmo di muoverci in proprio. Fu un successo, arrivammo a 200 macchine. Ma quando le agenzie se ne accorsero ci fecero la guerra: abbassarono le tariffe per metterci in difficoltà».
L’ora di Federtrasporti
Bisognava reagire. Nasce così, nell’agosto del 1969, l’ennesima svolta di Alberto Collini. Probabilmente la più importante. «Un giorno, parlando con il presidente del CAM, Consorzio Autocisternisti Mestre, Modesto Gatto, con cui avevamo appena fatto un grosso lavoro, gli propongo di metterci insieme: divisi andava bene quando c’era poco lavoro, gli dico, ma adesso che ce n’è tanto e ci troviamo clienti che ci chiedono 500 macchine, come facciamo? E cominciammo a parlare di fare una società fra consorzi. Continuammo anche nei mesi successivi, cercando altre adesioni, e il 20 novembre 1971 nacque Federtrasporti».
Ma a quell’appuntamento, Collini non è presente. Quando i promotori si presentano davanti al notaio, lui è fuori dal RAT e sta preparando una nuova sfida: il COTRAS, Consorzio trasporti speciali, che entra nella nuova associazione nel 1975, perché l’ha voluta e ci crede. «Federtrasporti è nata proprio dall’idea per la quale mi sono sempre battuto e mi batto ancora: da soli non si va da nessuna parte. Anche i committenti, anche le grandi imprese non fanno nulla da soli, figuriamoci nell’autotrasporto dove chi pensa a fare solo la guerra agli altri nel giro di pochi anni non troverà più né contratti, né tariffe». E invece? «E invece, in un mondo sempre più globalizzato, devi essere presente sul mercato con strutture più grandi, dare servizi migliori, più precisi, più corretti, meglio organizzati. E conquistare in questo modo il cliente».
Presidente per sempre
Uno così, in Federtrasporti, non può che arrivare a diventarne il presidente. Collini ci arriva il 30 maggio del 1985, dopo anni di combattiva presenza nel Consiglio d’amministrazione. E affronta subito il nodo di quegli anni: la logistica. Un mondo complesso, quello della filiera. Fu, allora, difficile capire cosa stava accadendo? Macché. Collini la racconta in due parole: «Strada facendo il petrolifero diminuiva e aumentavano i soci del cassonato e allora ci siamo trovati a dover affrontare il nodo della logistica e ci siamo entrati proprio nel pieno del nostro sviluppo perché eravamo preparati e potevamo già disporre di una struttura importante». Hanno origine in quegli anni l’impianto di Secugnago, un complesso di magazzini ora in affitto in provincia di Lodi e quello di Campiglia Stazione, a pochi chilometri da Piombino, in una posizione strategica per lavorare con il porto di Livorno. «Facemmo una società lì sul porto per importare dall’Africa sali per l’agricoltura e concimi chimici: li immagazzinavamo e ci attrezzammo per insaccarli, allargando l’impianto fino ad arrivare e 10 ettari. È stato un periodo bellissimo. Avevamo uffici a Milano, a Genova, a Bologna, a Ravenna, a Roma, a Latina, a Livorno e io li passavo tutti».
Il pallino aggregativo, anche a riposo
Perché non bisogna riposare mai sugli allori. Anche adesso, che si è ritirato in campagna a Fiesole e pensa a quel «visibilio d’acqua» che è stata la sua vita, Alberto Collini insiste sul suo credo: «Qui siamo quasi in campagna. Siamo a sette chilometri dalla piazza del Duomo di Firenze, ma siamo in campagna, dove i contadini di una volta seminavano il grano ognuno per sé, ma quando arrivava il momento di mietere il grano andavano nei campi tutti insieme. Perché bisogna unirsi con il proposito di costruire, non con l’intenzione di arraffare». Arraffare? «Arraffare è inseguire tutto quel che ti offrono. Ma, se pure hai tutti gli strumenti di questo mondo, e poi ti metti a fare unicamente le scarpe rosse che servono solo al papa, non vai da nessuna parte».
A Campiglia Marittima (LI) Federtrasporti ha una filiale con uffici traffico e magazzini. A giugno del 2001 Collini inaugura l’impianto di 6.000 mq votato principalmente all’immagazzinamento, imballaggio e distribuzione di coils zincati, provenienti dal vicino distretto dell’acciaio. Successivamente, nel 2003, si inaugura un altro magazzino di 6.000 mq dedicato al confezionamento e alla movimentazione di biossido di titanio.