Si chiama «azione diretta» ed è uno degli strumenti più utili elaborati dal legislatore per tutelare il vettore. Anzi, più precisamente il sub-vettore, visto che l’art. 7 ter del decreto legislativo n.286/2005 (che contiene questo istituto) concede a questi la facoltà di risalire la filiera di trasporto, quando chi gli ha commissionato i servizi di trasporto non lo ha saldato. In pratica, il sub-vettore che non incassa dal vettore può bussare a tale scopo alla porta del committente. Eventualità talmente utile che il presidente di Fiap, Massimo Bagnoli, avrebbe voluto vederla applicata anche alla vicenda Artoni, dove circa 2.000 aziende rimaste “a bocca asciutta” dopo che l’azienda emiliana è saltata per aria avrebbero potuto trovare soddisfazione rivolgendosi direttamente ai committenti. Interpretazione, questa, poco gradita al curatore del fallimento Artoni, più propenso (tecnicamente per una superiorità della legge speciale fallimentare rispetto alle altre) a gestire tutti i crediti tramite la massa fallimentare.
Insomma, l’azione diretta è utile, magari non sempre usata adeguatamente dai vettori, ma comunque utile. Chissà però se, seguendo la sorte di altri pezzi della normativa di tutela dell’autotrasporto, scomparirà dall’ordinamento? La domanda è legittima non fosse altro perché siamo alla vigilia di un’udienza della Corte Costituzionale, prevista per il prossimo 6 febbraio, chiamata proprio a giudicare sulla costituzionalità o meno di quell’art. 7 ter e quindi dell’azione diretta.
A sottoporla al giudizio della Corte Costituzionale è stato il Tribunale di Grosseto, quando il 3 giugno 2016 pronunciò un’ordinanza in cui si riteneva “non infondata” la contrarietà dell’azione diretta con l’articolo 77 seconda comma della Costituzione, quello in cui si concede al governo la possibilità, in casi di estrema urgenza, di adottare decreti da convertire poi in leggi del parlamento. Cosa c’entra con l’azione diretta?
Il nesso, un po’ arzigogolato, sarebbe questo: il decreto legge del governo deve essere un atto con un sua organicità determinata dall’urgenza (perché se non c’è urgenza le leggi in Italia le approva il parlamento e non il governo). In quel caso, quello del decreto n. 103/2010 l’urgenza era dettata dalla necessità di garantire continuità al servizio pubblico marittimo. In sede di conversione, poi, ci si infilò anche l’azione diretta, con cui si integrò appunto il decreto legislativo 286/2005 dell’art. 7 ter. Operazione, a onor del vero, non così infrequente nella storia normativa del paese.
Fatto sta che il Tribunale di Grosseto, citando la stessa Corte costituzionale, sostiene che «le norme aggiunte in sede di conversione, ove siano del tutto eterogenee al contenuto o alle ragioni di necessità e urgenza proprie del decreto, devono ritenersi illegittime perché esorbitano dal potere di conversione attribuito dalla Costituzione al Parlamento». In questo caso cioè – per dirla diversamente – l’attività di autotrasporto di merci non avrebbe nessun legame con la necessità di assicurare la regolarità del servizio pubblico di trasporto.
A questo punto non resta che attendere il giudizio della Corte Costituzionale di martedì prossimo ponendosi nel frattempo due domande lecite: ma quanti sono attualmente i giudizi pendenti in cui le parti (vettore e committente) litigano in relazione a questioni sorte nell’applicazione dell’azione diretta? E se la Corte dovesse eliminare l’art. 7 ter dall’ordinamento quali conseguenze si provocherebbero su questi giudizi? La risposta alla prima domanda è abbastanza oscura. La seconda – purtroppo – è quasi retorica.