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Il difficile subentro: solo il 20-25% delle aziende passa la mano alla seconda generazione

Uno studio dell’Osservatorio AUB sulle imprese italiane con oltre 20 milioni di fatturato ha rilevato che per il 65% sono a struttura familiare e nelle PMI le percentuali (discordanti) salgono di molto. Il 62% dei leader familiari desidera lasciare l’azienda ai figli, ma solo il 18% si prepara al passaggio. E l’autotrasporto non si discosta molto dal quadro nazionale

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Come sta la famiglia? Bene, grazie. Sembra uno scambio di convenevoli, invece è la fotografia delle imprese familiari in Italia, scattata dall’Osservatorio AUB (acronimo di Aidaf, Unipol e Bocconi) che dal 2009 monitora l’andamento di questo importante settore produttivo. Importante perché – come rivela la 14a edizione dell’Osservatorio AUB, presentata lo scorso gennaio – in Italia tra le aziende con un fatturato pari o superiore ai 20 milioni di euro, il 65% (cioè 11.635) sono a struttura familiare. E stanno bene: nel 2021, in uscita dalla pandemia, hanno registrato un rimbalzo di ricavi del 20,1%, una redditività netta che ha superato di più di mezzo punto il ROE (Return of Equity) pre-pandemico (dal 13% del 2019 al 13,6% del 2021) e una maggiore solidità dimostrata da un rapporto di indebitamento sceso di 4-5 volte.

Ma non è tutto oro quel che fa luce. Mentre all’orizzonte si addensano sfide epocali – dalla transizione ecologica all’incerto panorama geopolitico – le aziende familiari italiane stentano a rinnovarsi: solo il 26,4% delle imprese ha almeno un consigliere sotto i 40 anni (dieci anni prima, nel 2011, erano il 46,6%); le presenze femminili non decollano: solo nel 37,6% dei casi almeno un terzo dei consiglieri è donna, con un incremento di soli tre punti in dieci anni; cresce invece di più – dal 54,3% al 60,1% – la presenza di consiglieri non familiari, ritenuta essenziale dall’Osservatorio per una transizione verso modelli di governance più evoluti.
Lo studio di Aidaf, Unipol e Bocconi, infatti, ha scelto come standard per misurare la diversità delle imprese familiari proprio questi tre requisiti (almeno un consigliere sotto i 40 anni; almeno un terzo di donne in consiglio e almeno un soggetto non familiare) e in Italia li ha ritrovati soltanto in 344 aziende familiari delle 8.589 esaminate. Ma ce n’è un quarto da considerare, anche in confronto agli altri Paesi. Se i valori registrati sono analoghi in Francia e in Germania, da noi è sempre molto elevata la presenza di leader con età superiore a 70 anni: il 29% del totale contro il 19% della Germania e il 10% della Francia, mentre i leader sotto i 50 anni sono il 33%, al di sotto del 37% francese e del 39% tedesco.

Il tasso di longevità

Che dietro le luci ci siano alcune ombre, del resto, lo dimostrano i tassi di longevità delle imprese familiari italiane. In questo caso i dati sono ballerini, ma la tendenza è evidente: in linea di massima solo il 20-25% riesce a passare la mano alla seconda generazione, solo il 13-15% arriva alla terza e solo il 4% alla quarta. Perché non dimentichiamo che lo studio di AUB riguarda fatturati di tutto rispetto; se scendiamo e arriviamo alla piccola e media impresa, la quota di aziende familiari sale enormemente: su un totale di 5 milioni di imprese iscritte alle Camere di Commercio, l’85-90% è a gestione familiare, a fronte di una media europea del 50%.
Ma se per una grande azienda è difficile condurre in porto la transizione generazionale, figuriamoci per una PMI. IG Academy, azienda di formazione del gruppo londinese, sempre facendo riferimento a dati AUB, fornisce sul suo blog una serie di percentuali sconcertanti. Uno in particolare: il 62% dei leader familiari desidera che l’azienda resti proprietà della famiglia, ma mentre il 18% delle aziende italiane si prepara a cambiare leadership nei prossimi cinque anni, soltanto il 9% dà importanza strategica a tale passaggio e soltanto il 14% dichiara di avere un piano formale per il passaggio generazionale.

L’autotrasporto nella media

E l’autotrasporto merci come vive il passaggio generazionale? Claudio De Vecchi, ex docente alla Bocconi di Milano, oggi amministratore unico e direttore scientifico del Centro di ricerca sulle imprese di famiglia (Cerif), in un’intervista ha affermato che «il settore non presenta tratti distintivi rispetto ad altri», ma lo confermano sostanzialmente anche gli unici dati ufficiali disponibili per il settore, quelli Istat, relativi al Codice Ateco 4941 – «Trasporto di merci su strada» – che non mostrano grandi differenze con il quadro nazionale, ma bisogna premettere che sono state prese in considerazione solo le aziende con più di tre dipendenti, il che già taglia fuori dalla statistica migliaia di padroncini: basti pensare che contro le 80 mila imprese attive (e con veicoli) iscritte all’Albo degli autotrasportatori, quelle prese in considerazione dall’Istat per le tabelle dedicate al passaggio generazionale sono soltanto 17.746.
Le tabelle dei censimenti permanenti dedicati dall’Istat a questo tema offrono, tuttavia, indicazioni interessanti. In primo luogo, i valori medi dell’autotrasporto merci non si discostano da quelli delle imprese nazionali, salvo in alcuni casi. I passaggi generazionali nel settore sembrano aver subito un’accelerazione nei tre anni prima del 2018, con una quota nazionale del 2,55% che è superiore alla rappresentanza delle imprese di autotrasporto merci sul totale di quelle esaminate (2,28%), mentre negli anni antecedenti la quota era assai inferiore, con l’1,79%. Ma già dall’anno successivo al 2018 la percentuale torna a scendere all’1,52%, per risalire al 2,44% – sia pure solo come ipotesi futura – per i successivi cinque anni. Un andamento stop and go che mostra come l’autotrasporto merci subisca più del resto del mondo produttivo l’incertezza del quadro economico.

Le altre voci in cui l’autotrasporto merci si discosta dalla sua quota di settore nelle ricerche Istat, riguardano le conseguenze del passaggio generazionale, rispetto al quale le famiglie imprenditoriali del settore mostrano maggiore tenuta rispetto al quadro nazionale: mentre le percentuali di «rafforzamento del ruolo» e di «mantenimento del ruolo» sono in linea con il 2,14%, che costituisce la quota dell’autotrasporto merci nel totale delle imprese testate, nettamente al di sotto di tale rapporto sono le imprese di autotrasporto merci che hanno visto una «riduzione» del ruolo della famiglia (1,20%) o addirittura la «perdita del controllo» (1,51%). Tenuta confortata, per converso, dal rapporto all’interno dell’autotrasporto merci in cui la quota di famiglie che hanno mantenuto il proprio ruolo nell’impresa è superiore di quasi 4 punti rispetto alla percentuale raccolta per la stessa voce nel totale nazionale.
Proprio nel confronto sugli ostacoli al passaggio generazionale tra imprese di autotrasporto e totale nazionale si evidenzia una maggiore difficoltà per le prime a far fronte alle difficoltà burocratiche, legislative e/o fiscali (il 16,21, contro il 14,01 totale, con un divario di 2,20 punti percentuali), mentre sono di un punto percentuale inferiori le aziende di autotrasporto che non hanno incontrato alcuna difficoltà (il 39,34% contro il 40,38%). Unica voce in controtendenza l’«assenza di eredi o successori interessati e/o qualificati»: nell’autotrasporto solo il 12,66% l’ha indicata come un ostacolo al passaggio, contro il 14 del totale nazionale. Mentre più o meno la stessa quota, anche se assai bassa, hanno registrato «conflitti familiari» sia nell’autotrasporto che nel totale: 3,85 il primo, 3,78 il secondo. Segno che, quanto a beghe di famiglia, tutto il mondo è paese.

Questo articolo fa parte del numero di novembre 2023 di Uomini e Trasporti: uno speciale monografico di 64 pagine interamente dedicato al tema del passaggio generazionale nelle aziende di autotrasporto.

Leggi l’editoriale: I giovani sono fannulloni? E mo’ basta

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